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Una città brutta

Una città brutta

“Che cos’è oggi la città per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città.”

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Sono le parole che ha usato Italo Calvino nel corso di una conferenza tenuta nel marzo 1983 alla Columbia University di New York. L’autore presentava il suo romanzo Le Città invisibili, scritto nel 1972.
La domanda che pone Calvino è ancora attualissima perché il tema nell'intuizione dell'autore anticipa un tempo che dovrà ancora determinarsi, sia per il futuro che attende la città, sia per la vita dei suoi residenti.

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Le città non sono mai le stesse, non sono uniformi nel tessuto sociale e nei caratteri urbanistici. Tale disomogeneità qualifica la relazione tra il centro e la periferia. I muri del verde agricolo, residuo incolto della speculazione edilizia in mano alla mafia negli anni settanta, sono alti e vecchi, segnano il confine e la separazione.

I palazzoni che vedete alle spalle dei cocci di vetro sono costitutivi della distanza tra luoghi diversi per cura, genesi, idea progettuale, a monte e nella mente di chi inevitabilmente ha condizionato il futuro dei bambini e dei residenti di questi quartieri. Siamo nella parte sud est di Palermo, gli edifici di edilizia popolare si appaiano con i casermoni delle cooperative. Alcuni di questi palazzi sono stati confiscati alla mafia, uno ospita la caserma dei carabinieri. Si trovano tutti in linea d’aria a un paio di centinaia di metri dal mare dimenticato e non balneabile. Una città fantasma, alienata dal tessuto produttivo, dagli spazi a verde pubblico, dal circuito turistico, dai servizi per l’infanzia.
Una città brutta.