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Tre fotografie per Palermo. Quattordicesima puntata

Tre fotografie per Palermo. Quattordicesima puntata

Sempre attento all'innovazione tecnologica non dimentica che fotografare significa soprattutto raccontare

Marco Giacalone ben esprime in ambito professionale l’esigenza attuale di mettere insieme profili ed esperienze diverse, dalla fotografia documentaria alle soluzioni a 360 gradi nel campo dell'informatica e della multimedialità. Le sue foto sono anche il prodotto di una conoscenza profonda di questa città, da residente e ‘appartenente’, con tutto l’orgoglio che ne può derivare ma anche da imprenditore che guarda con occhio critico alle carenze di questa città, alla sua vocazione ad imbrigliarsi.

Tu nasci come programmatore nel campo informatico ma ti occupi anche di video editing e tour virtuali. Ci parli del tuo interesse per la fotografia, in senso stretto?  

L’interesse per la fotografia è legato all’interesse per il racconto. Le mie foto nascono nella fase analogica quando facevamo i conti con le economie disponibili. Tornare da un viaggio con cinque-sei rullini significava aspettare e maturare un certo tempo tra quello che avevi scattato e ancora non conoscevi e il prodotto che usciva dallo sviluppo delle pellicole.

Tu svolgi gran parte della tua attività professionale fuori. Palermo invece nella tua professione, quanto pesa in termini di identità?

Inizio ad occuparmi di Palermo nel 2000 con la realizzazione di un cd-rom multimediale che avevamo chiamato ‘Palermo un racconto’. Era un momento particolare di rinascita culturale e civica. Sono gli anni del Windsurf World Festival di  Mondello che ad un certo punto fa un passo in avanti, del ricco programma di eventi artistici di Kals’Art, di occasioni che devono accendere i riflettori sulla città anche con le luci degli esercizi commerciali del centro che prima di allora venivano tenute spente. L’esigenza era raccontare il modo in cui Palermo si presentava all’appuntamento con il nuovo millennio con questa nuova e forte spinta alla rinascita. Palermo doveva diventare multicolore, illuminata e vivace. Accanto alla rinascita civica quella culturale e festaiola.

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Allora sembrava possibile attuare un cambiamento, una rivoluzione?

Si, in quel momento c’era una voglia di apparire. Era anche un momento amministrativo molto fervido in cui il sindaco Orlando utilizzava i contatti e il prestigio personale mettendolo al servizio di questo cambiamento.

Torniamo al tuo lavoro. Ci parlavi di questo prodotto multimediale dedicato al rinascimento della città. Come era caratterizzato?

Comprendeva diverse sezioni, dall’attualità allo spettacolo, dalla musica al teatro,. C’era anche una sezione dedicata allo sport, con un Palermo che arrancava (non era ancora in serie A), ma con una squadra di pallanuoto importante e competitiva a livello nazionale. Comprendeva anche una sezione fotografica e ci era stato chiesto di integrare le immagini del passato con le immagini attuali, scegliendo la stessa angolazione e prospettiva per una comparazione immediata tra il prima e il dopo.

Come è andata?

Nella sezione fotografica non benissimo poiché alcune foto del passato erano state scattate da posizioni di osservazione che non era possibile più assumere, alcuni edifici che non c’erano più e alcune prospettiva erano mutate. Nel dopoguerra era cambiato il waterfront  della città, il foro italico era meno avanzato. Ma la sezione fotografica dal nostro committente (il Comune) fu scartata perché il raffronto tra come era Palermo e come era diventata era stato impietoso, a scapito del presente. Il fattore più eclatante nella deriva estetica era rappresentato dalle auto che avevano invaso le piazze. Anche nei caratteri urbanistici del centro storico, penso ad esempio al Capo, Palermo non usciva migliorata, anzi. Il degrado nella rappresentazione di alcune vie importanti diventava la parola chiave.

L’esigenza di raccontare la rinascita di Palermo, la rivoluzione di allora, secondo te a quali luoghi e a quali risorse monumentali è correlata? Che cosa avete o abbiamo , a vario titolo, raccontato?

Credo si sia trattato di avvicinare Palermo alle altre capitali culturali ed europee rivitalizzando il centro. Noi avevamo una città decentrata anche nella vita serale e notturna. Cinema e locali erano sparsi per la città e non c’era un centro. Portare la musica al centro della città, costruendo un circuito di locali e di eventi tutti vicini, aveva un senso.

Un luogo simbolo di quella rinascita?

 Se devo pensare ad un luogo simbolo mi viene in mente lo Spasimo, che è diventato di tutti senza grandi interventi  e solo con l’utilizzo delle maestranze del comune. Lo Spasimo è stato un luogo di grande espressione artistica e culturale.

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Quali sono i monumenti di Palermo maggiormente conosciuti nel mondo?

Le cupole di San Giovanni degli Eremiti, che hanno una forza simbolica che affonda le radici nella storia. L’altro grande e importante monumento conosciuto, per rimanere nella provincia,  è  il Duomo di Monreale con il Cristo pantocratore.

Svolgere un’attività professionale di documentazione culturale e artistica nella propria città può creare qualche difficoltà, a livello di pregiudizi o emotivo, o altro?

Quando si fotografa la propria città per esigenze di lavoro smetti di essere residente e palermitano e ti disinteressi della relazione personale. Ciò che importa in quel caso è l’accessibilità del monumento, della piazza, dell’oggetto che devi fotografare. Palermo essendo una città piena di automobili e paralizzata dal traffico può creare qualche difficoltà in più per il danno effettivo alle immagini. Palermo però è anche l’unica città in cui puoi citofonare e chiedere di salire a casa di un privato per scattare una foto dall’alto. Mi è capitato diverse volte. Alla Vucciria una signora non soltanto mi ha fatto salire a casa sua ma mi ha anche offerto il caffè e i biscotti, qualcosa che altrove non potrebbe mai accadere. In Europa queste cose non potrebbero mai succedere, nemmeno in un hotel o una struttura pubblica.

Quindi siamo più ospitali?

Si sicuramente, ma anche più disponibili a raccontare la nostra città, come era cambiata una piazza, quali esercizi avevano chiuso, con una valutazione anche di ciò che era bene e di ciò che era male. Quando si fotografa Palermo si finisce sempre dentro aree urbanistiche che hanno una storia importante, che sono stati un polmone della vita culturale passata. Oggi ad esempio la Vucciria è morta. Il fatto che ci siano locali notturni non significa molto rispetto a ciò che era prima. Pub e locali non hanno riqualificato, rimane un fatto parziale e di convenienza. Valga come esempio la Vucciria: molti piani bassi sistemati per l’aperitivo ma restanti parti degli edifici fatiscenti.

Invece la relazione con la città dal punto di vista sociale?

Non ci sono mai stati ostacoli alla disponibilità a farsi fotografare e intervistare, soprattutto nel settore del cibo di strada. Se devi fare un reportage sullo street food rischi solo di prendere qualche chilo. Una volta però a Catania si è avvicinata una persona che in maniera molto discreta mi ha chiesto di evitare di riprenderla in quanto latitante. Una situazione imbarazzante.

Tu hai svolto attività professionale in tutte le province e hai una buona conoscenza anche di Catania. La principale differenza tra il nostro festino e la Festa di Sant’Agata?

Dal punto di vista della partecipazione popolare la festa di Sant’ Agata non ha eguali, tanta passione e uno spirito religioso che appartiene a tutti i catanesi. Il Festino invece non è di tutti, molti non partecipano ed è simbolicamente rappresentato dal momento in cui il sindaco grida “W Palermo, W Santa Rosalia”, in cui si stabilisce la doppia paternità della festa, laica e religiosa. Il secondo momento, ancora più importante, è quello dei fuochi d’artificio. Il Festino sconta questa doppia fisionomia, con due feste, due conferenze stampa, due loghi differenti, due modi di intendere il rapporto con la patrona che segnano anche un distacco all’interno della stessa città.

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Invece sotto l’aspetto dell’attaccamento alla propria città? Palermo e Catania sono anche due diversi modelli di cittadinanza?

Si, entrambe le comunità sono legate alla loro città ma mentre il catanese assume una vocazione a difenderla più forte, il palermitano può esaltarsi nel momento in cui critica la sua comunità con toni anche sprezzanti. Questo accade anche nel calcio. Nella mia esperienza giornalistico-sportiva ho verificato che le notizie sulle sconfitte del Palermo ottengono maggiore risonanza rispetto a quelle in cui la squadra vince. Paradossalmente al giornalista sportivo conviene di più parlare del Palermo che perde.

Nella tua attività professionale c’è qualcosa che non ha funzionato a Palermo, un reportage che avresti voluto fare.

Nell’occasione del restauro della copertura lignea dei tetti della Cappella Palatina, ultimato del 2008, mi era stata data l’occasione di fotografare, grazie alla permanenza per ancora un giorno  del ponteggio, da una distanza per un fotografo straordinaria. In quel periodo ero impegnato in un’attività di documentazione fotografica delle segrete all’interno del Palazzo reale, quindi a pochi metri. Non riuscii a fotografare quei tetti e sarebbe stato un reportage unico e originale.

Parliamo invece degli scatti monumentali che si possono fare a Palermo. Quali sono gli scatti più belli?

Innanzitutto i tetti. Credo che la prospettiva più interessante sia proprio dall’interno della Vucciria, perché non ti trovi molto in alto, ti trovi al livello dei tetti ed hai la possibilità di cogliere tutte le variazioni cromatiche. Parlando invece di  qualche scatto che ho realizzato recentemente con una tecnologica più avanzata, penso ai Quattro Canti, che si possono cogliere a 360° dal basso con una lente fisheye senza punti ciechi. Credo sia una bella esperienza, molto funzionale ad alcune esigenze percettive che scattano proprio mentre ti trovi lì. Ho realizzato diversi lavori, anche in tecnologia 3D, dedicati ai monumenti palermitani ma anche a realtà non siciliane. Considero la tecnologia 3D interessante perché sensibilizzare e affinare il visivo facendo esperienze diverse può gratificare molto. Palermo presenta tante risorse monumentali che si prestano per  realizzazioni in 3D. Fra tutte la Fontana Pretoria.

Come consideri la fotografia digitale e l’evoluzione in termini di megapixel e di apparati tecnologici in dotazione all’arte fotografica?

Positiva, può solo migliorare, senza pregiudizio, e non si tratta neanche di ristabilire una relazione tra passato e presente, fotografia tradizionale e fotografia contemporanea. D’altronde il maggiore esperto di foto stereoscopiche del novecento, conosciuto prevalentemente come scrittore, è stato Luigi Capuana. Nelle sue stanze è ospitata una collezione di foto in 3D davvero straordinaria.

Come consideri Palermo nella fotografia tradizionale e nel modo di veicolare la sua immagine?

Ferdinando Scianna mi piace molto in quanto ha rappresentato la Sicilia ed anche la nostra città in maniera variegata, ampliando la percezione e con una forte attenzione ai contesti. E’ molto difficile uscire dai cliché e quando abbiamo prodotto un repertorio di immagini su una capitale culturale che funziona è molto difficile fare innovazione, rompere certi schemi. Monreale ad esempio, fotograficamente, a prescindere dal Duomo, non esiste.

Parliamo della massificazione della fotografia e della cultura fotografica, oggi a portata di dispositivo. Non diventiamo tutti scrittori, pittori, scultori o registi ma tutti facciamo e pubblichiamo foto. Che cosa sta accadendo?

Non credo si tratti di un processo e di un cambiamento che riguardi solo la fotografia. La fase che stiamo vivendo è caratterizzata da questo atteggiamento generale in cui tutti siamo infarinati di tutto. Andiamo dal medico e nella nostra mente abbiamo anticipato la diagnosi, dall’avvocato con una soluzione al nostro caso. Nel mio settore accade che qualcuno si improvvisi ufficio stampa senza avere la minima idea di quanto sta facendo. E’ il tema dell’accessibilità dei saperi,dell’accesso all’informazione da non confondere con la capacità di mantenere un atteggiamento critico verso le fonti e verso gli ambiti. In generale un accesso aperto a tutti non è una cosa negativa, il ritenersi esperti senza avere maturato una congrua esperienza si. Vent’anni fa il dj sceglieva le canzoni e le combinava valutando tempi e ritmi, era un lavoro creativo. Il dj oggi con i software e i promo di musica crea direttamente le canzoni ma queste appaiono tutte uguali.  Nella fotografia l’accessibilità ha modificato la percezione del sapere fotografico, come bene diffuso. E’ chiaro che la mole di foto che si genera sullo stesso oggetto può generare una buona foto anche senza alcuna intenzionalità dell’autore ma è sempre possibile stabilire se dietro una o più foto vi è una ricerca, un processo che è di pensiero, emozionale ma anche tecnico. Oggi conta molto la velocità, nel giornalismo ma anche nel reportage fotografico. Questo può ingannare chi non è esperto nella valutazione di un prodotto buono.

Ma questo accade anche nella tua professione?

Si, facciamo i conti anche con questo elemento, anche se io svolgo l’attività professionale nell’ambito dell’informatica che è settore più complesso. I fotografi dei matrimoni e degli eventi cerimoniali invece si misurano con la quantità di foto che sono state prodotte da parenti e amici. Non si possono più permettere di consegnare troppo tardi ma se sono dei buoni professionisti possono fare sempre un buon lavoro fotografico di insieme, cosa che non è concessa a chi si improvvisa ed è semplicemente un ospite.