Tre fotografie per Palermo. Ottava Puntata
Ottavio Amato è sensibilità particolare, espressione di una passione per la fotografia in cui non si smarrisce né l’uomo, né il valore alto della persona. La gradevole conversazione con Ottavio sin dall’inizio è accompagnata da questa particolare attenzione al senso complessivo dell’arte, alla ricerca della bellezza e della luce.
Ottavio, quando hai iniziato a fotografare?
Inizio a fotografare molto presto, da piccolo, stimolato da uno zio a cui ero legato e che faceva oltre che l’avvocato, il pittore, conosciuto e quotato. Mio zio era un personaggio eccentrico che esercitava su di me un certo carisma. La pittura stimola il mio interesse al punto che inizio a dipingere maturando anche una certa abilità, occupandomi di ritratti. Si tratta di un settore particolare, molto complesso. Intorno ai quindici anni scopro la fotografia nella sua funzione complementare al ritratto pittorico. Il ritratto rimarrà al centro della mia esperienza e in qualche maniera cercherò di raccontare attraverso i ritratti anche la città.
La tua prima macchina fotografica…
L’agfa pocket con cui inizio a fotografare i compagni, le prime uscite, più tardi negli anni settanta i cortei e qualche personaggio della vita pubblica. La Cattedrale rimane tra i primi monumenti fotografati nella prima esperienza di libertà adolescenziale. Sin dall’inizio, la passione per la fotografia si pone all’interno di una relazione intima, personale e privilegiata. Con i vent’anni arriverà un momento in cui deciderò di acquistare una reflex, con le ottiche e la smania di sviluppare e stampare. Gioia e passione insieme, un periodo importante in cui fotografo tutto, ovviamente in cui inizio a realizzare anche i ritratti. Ancora giovane a Montmartre, nell’occasione in cui accompagnavo a Parigi la nonna, approfittavo delle modelle che posavano per i pittori e con il mio 135 in quel periodo avevo fatto già molti ritratti.
Poi come procede la tua esperienza fotografica?
Stranamente accade che ad un certo punto per una serie di concause, forse anche per impegni lavorativi e personali, abbandono la fotografia, mi prendo una lunga pausa, inspiegabile, quasi dieci anni. Riprendo a fotografare nell’occasione in cui vado a trovare un amico in Olanda. Prendo una Canon Bridge e riscopro la fotografia. Da lì si risveglierà l’interesse anche per il digitale, una sorta di innamoramento che mi fa sentire l’esigenza però di informarmi, sperimentare questo nuovo mondo rappresentato dalla rivoluzione del digitale.
Secondo te la formazione è ancora importante nella fotografia artistica?
Si, certamente, me ne rendo conto dopo avere visitato una mostra sui rom di Palermo di Giuseppe Sinatra, che conoscevo fotograficamente, una esperienza bellissima che mi porta a contatto con la scuola di Palermo Foto dei fratelli Veneziano. Mi sono reso conto che un corso di base per una persona che aveva già maturato un’esperienza fotografica può aprire un mondo di possibilità in cui l’arte fotografica consente anche di divertirsi, diciamo con i trucchi del mestiere, anche se io rimango e mi considero un appassionato. Da allora la formazione mi ha interessato sempre di più, anche perché solo in questa maniera puoi intrecciare relazioni di scambio con persone che fotografano, che hanno più esperienza o esperienze diverse. La formazione poi ti consente anche di staccare la spina e dedicare alcune ore la settimana alla fotografia ma anche a te stesso.
Hai fatto riferimento alla dimensione anche intima della fotografia. anche come forma di attaccamento alla realtà ed alla memoria. Tu collezioni anche macchine fotografiche e nella tua casa ci sono ritratti affettivamente importanti...
Si, è un aspetto riservato, anche con una forte componente spirituale. La relazione con le persone a cui siamo legati, che non ci sono più, almeno non fisicamente, può essere coltivata attraverso un ritratto, uno sguardo che è stato fermato nel tempo, rubato. Come gli Indiani d’America penso che la fotografia con il ritratto possa davvero rubare l’anima, cogliere l’essenza delle persone. Non a caso ho organizzato a casa una sala pose, l’occasione per me di fotografare anche gli amici che incontro e che vengono a trovarmi.
Torniamo alla città. Come la vivi e come entra nella tua fotografia?
Palermo può essere fotografata in mille modi, anche all’interno di esperienze particolari che ti convolgono, anche apparentemente lontani dalla fotografia. Da diciotto anni faccio un’attività di volontariato presso la missione Speranza e Carità di Biagio Conte. Parlare della missione e della fotografia insieme non è facile perché non si tratta di esporre qualcosa che si vive o che si vede ma di esprimere dal di dentro un'esperienza di volontariato puro con la passione personale per la fotografia, una traccia, nel massimo rispetto e, ovviamente, nei momenti in cui non devi sbracciarti e portare un aiuto concreto.
Quindi un progetto delicato e ambizioso..
Certo, velleitario, lungo, che ha cominciato a prendere forma. L’idea è di raccontare in un progetto editoriale che vorrei intitolare I fratelli la mia esperienza quasi ventennale. E’ un progetto che è iniziato ma non so quando si potrà ritenere compiuto. Nell’interesse della missione alcuni momenti vanno documentati ma la questione è molto complessa. Penso ad un repertorio di ritratti senza didascalie e senza testi, fratelli accolti ma anche qualche missionario e volontario perché si tratta pur sempre di sguardi e volti che fanno parte della missione.
Che ne pensi della street che fotografa soggetti con forte svantaggio, ad esempio senza casa?
E’ una cosa che non mi piace e che viene invece praticata. La fotografia non dovrebbe rappresentare gli ultimi per strada, esporli senza filtro e senza protezione. Fotografare il fratello per strada secondo me è una cosa brutta, a meno che non si tratta di un’attività di reportage che però deve sempre essere rispettosa, possibilmente lontana dai volti. E’ una cosa che ho imparato nel tempo trascorso in Missione.
Palermo e la sua rappresentazione all’esterno. Esiste una specificità nella nostra città, sotto l’aspetto dell’umanità che la vive o sotto altri caratteri?
Palermo, che io adoro e considero fantastica, che credo di conoscere, è riuscita a meravigliarmi (anche a sconvolgermi) in maniera radicale quando ho scoperto la missione, l’umanità di questa città difficile che nelle condizioni più critiche riesce ad aiutare, ad esprimere un cuore gigantesco.
La missione è una realtà che oggi conta più di mille accolti, che tra mille difficoltà riesce a sostenere gli ultimi e diventa anche un modello di aiuto. A partire da questa esperienza sono nate tantissime realtà che escono per strada la notte in maniera coordinata ed organizzata. Tutto questo può diventare non solo una buona pratica da esportare in altre città ma anche una storia di umanità mai raccontata.
Torniamo ai ritratti. La tua fotografia geograficamente spazia ma ci sono delle specificità in qualche misura correlate ai ritratti fotografici realizzati a Palermo?
Credo stiamo vivendo una grande stagione culturale a Palermo, di rinascita, accompagnata da una consapevolezza nuova rispetto alle risorse che abbiamo la fortuna di conservare ed offrire ai turisti. Questa stagione ha ed avrà delle forti ricadute anche sulla rappresentazione fotografica. Relativamente ai ritratti Palermo offre una varietà di tipi, non fosse altro per la contaminazione culturale che ci ha contrassegnato nei secoli. I ritratti non conoscono il tempo, né stratificazione, si tratta soltanto di cogliere un volto interessante. La nostra città e la nostra terra sono un esempio di accoglienza e di integrazione. Chi vive qui e manifesta un legame con questa terra è palermitano, ha il diritto di sentirsi tale senza la necessità di puntualizzare ad esempio le origini. Dal punto di vista del genere, un ritratto è tale, non conosce confini. Invece sotto l’aspetto tecnico preferisco il ritratto sotto la luce naturale o la luce continua, rispetto all’uso dei flash.
Mi accennavi ad alcune novità nella tua esperienza fotografica dell’ultimo periodo, alla riscoperta di tecniche e recupero di tradizione che sembravano ormai dimenticate…
Ho seguito un momento di full immersion con gli amici di Palermo Foto sul tema ‘Dal ritratto alla stampa antica’, con loro ho seguito diversi seminari e partecipato anche ad una mostra all’interno di un progetto che utilizzava antiche tecniche fotografiche come cianotipia e van dick. E’ interessante recuperare la relazione con il passato, con tecniche abbandonate che rappresentano altre chiavi di lettura che possono essere attualizzate. In questa ultima sessione dedicata ai ritratti ho sperimentato la stampa su materiali diversi da quelli che utilizziamo, sperimentazioni che richiamavano materiali di fine ottocento. Ci sono particolari tecniche di fissaggio su particolari materiali in ci si richiede l’utilizzo di infusi di caffè o di té, qualcosa di strabiliante che consente una forte pratica artigianale. Pensare di unire il digitale moderno con queste tecniche antiche che sembravano dimenticate costituisce una esperienza forte.
In questa ultima sessione ho lavorato con il digitale riconvertendo il positivo nel negativo che ho poi stampato con una semplice stampante domestica su un supporto speciale per poi procedere alla lavorazione artigianale con particolari nitrati spennellati su un cartoncino su cui poi si va a fissare il negativo. Il risultato per intenderci è quanto si realizzava un secolo e mezzo addietro.
La fotografia come esperienza anche di memoria attiva, tecnica e per certi versi anche ricerca sociologica, antropologica..
Si certo, la fotografia è tante cose insieme e ciascuno la vive e la pratica a suo modo e secondo la personale sensibilità, l'importante è praticarla sempre con uno spirito aperto.
L’intervista amichevole nella pienezza e nella sincera disponibilità di Ottavio si trasforma in una tuffo nella sua memoria familiare fatta di ritratti generazionali, volti distesi e pieni di luce che popolano la sua casa in una atmosfera viva e densa di umanità. La collezione di macchine fotografiche che l'artista mi racconta è solo complementare ad una visione della fotografia che per un paio di ore mi ha permesso di dimenticare il rumore, non solo quello che tecnicamente si corre il rischio di non eliminare quando si fotografa ma quello del nostro tempo, assordante e a tratti minaccioso e irriverente verso la bellezza.
(Le foto sono di Ottavio Amato)
Foto di copertina: Ottavio Amato nel suo studio (di Salvo Valenti)