Totò Riina, la morte e la tracotanza dei pietisti
Lo spirito compassionevole qualche volta è fuori posto, più disumano dello scetticismo degli abortisti
Michel de Montaigne ha dedicato alla morte pagine e aforismi memorabili. Il suo atteggiamento scettico concretamente focalizzato sulla vita, attivo e operoso, dovrebbe ispirare il pensiero comune che sulla morte finisce quasi sempre con l’esprimere le peggiori nefandezze sentimentali e le passioni più melodrammatiche.
La morte incanta e fa paura, alimenta e mortifica insieme la memoria collettiva e alla fine ci dobbiamo dare un gran da fare per trovare ancora una qualche ragione per ricordare qualcuno che si è distinto, indipendentemente dal grado di moralità che ne aveva accompagnato le azioni.
Totò Riina che muore e fa ancora notizia, smuove commenti, raccoglie dichiarazioni istituzionali e qualche editoriale, costituisce un’iperbole emozionale per tutto il dolore che ha procurato alle vittime della mafia ed ai loro familiari. La sua anagrafe è una miscela di odio e rancore anche se l’esercito degli imbecilli che ne reclamano pietà e dignità umana è molto folto. La migliore battuta, seppure pesante e grondante di irriverenza l’ho sentita in bocca ad un amico che stamattina mi ha tuonato al telefono:”Mah, poca cosa, avrebbe fatto bene sua madre ad abortire!”
La notizia della morte prossima è stata accolta con favore popolare. Riina che muore è un colpo di spugna su una memoria collettiva pesante. I peggiori delitti di mafia, le stragi, la disumana strategia dei corleonesi, il narcotraffico, la speculazione edilizia, l’estorsione e il controllo del territorio sono gli aspetti più fenomenologici del suo ruolo autoritario, di capo indiscusso e violento. Ha sottomesso le altre mafie, sfidato lo Stato, usato amministratori e istituzioni politiche, vilipeso i giudici Falcone e Borsellino. Molti lo ricordano nella fiction il Capo dei Capi di qualche anno fa, con un Claudio Gioè strepitoso, capace di rompere ogni parvenza di rischio apologetico del personaggio e dell’uomo. Claudio Gioè è stato bravissimo allora a rendere l’odioso carattere, l’indole aggressiva e primitiva, la mancanza di senso di amicizia sin dalla giovane età, un uomo senza regole e senza sentimenti umani.
Riina non era un uomo, non era nemmeno un animale, di quelli selvaggi e con istinto predatore; è morto senza alcun briciolo di pentimento, incapace di pensiero riflessivo, di coscienza, bravo dietro le sbarre solo a ripetere il mantra di un ruolo ormai svuotato di significato. In alcuni casi aveva tentato di recitare la parte dell’anziano vittima del sistema carcerario, bisognoso di cure e di attenzioni familiari. Era un capo ormai malato, incapace da anni di contenere lo scardinamento ad opera dei magistrati dell’organizzazione mafiosa, una comparsa della peggiore serie sulla mafia. Nelle immagini degli ultimi anni provava ancora a mantenere lo sguardo sull’interlocutore come a volere mostrare ancora la forza cieca del potere mafioso e la coerenza dell’uomo d’onore che non aveva tradito la sua cultura e i suoi valori. Una prova inefficace anche mediaticamente.
Si dice che la morte restituisca dignità all’uomo favorendo sentimenti empatici di compassione. Riina creava solo imbarazzo anche nella cultura mafiosa mentre nelle persone per bene riportava alla memoria solo la peggiore stagione. La sua morte è una nullificazione più o meno conveniente, una specie di reset emozionale. Ne parleremo oggi per l'ultima volta e consegneremo la sua storia alla memoria storica. Non dovremo più vergognarci. Per questa ragione il pietismo dei suoi seguaci social assomiglia alle implicazioni della battuta del mio amico.