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Sicilian Ghost Story, una favola moderna sulla mafia

Sicilian Ghost Story, una favola moderna sulla mafia

Fabio Grassadonia e Antonio Piazza portano nella sale una della pagine più truci della cronaca siciliana

Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza potrebbe essere suggerito come un film di formazione per adolescenti. Non per la presenza significativa tra i protagonisti di ragazzini di scuola media in aperto conflitto con il mondo ma per il legame intergenerazionale che i registi intessono a partire da un fatto, un avvenimento tragico, tra madri e padri da una parte e figli dall’altra. La stessa comunità rimane sullo sfondo, non viene indagata, come la cornice formale di un’opera gotica, esposta negli ambienti surreali e nel ritmo lento di molte sequenze, priva di sostrato sociale con adulti inghiottiti e marginalizzati, figure passive che si muovono senza alcuna autentica coscienza sociale, che non sono in grado di comprendere le loro motivazioni, di affrontare l’eventuale ricaduta delle loro azioni.
Sin dalle prime sequenze è facile riconoscere nel protagonista la tragica vicenda di Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito rapito nel 1993 per volere di Giovanni Brusca, tenuto 779 giorni in prigionia e poi disciolto nell’acido. E’una delle pagine più truci della storia siciliana e della mafia, che costringe ad accettare definitivamente l’assenza di un limite al male, posto in termini di umanità e di possibilità anche storica ed etica. La mafia, nel film dei due registi siciliani, è un atto estremo di subordinazione alle pulsioni negative, primitivo, incommensurabile, di fatti che accadono così, in modo che non si possa suggerire in maniera sociologica, come succede spesso nella filmografia del settore, una domanda su una possibile emancipazione, un riscatto per tutti e per la comune appartenenza alla cultura siciliana. 
L’originalità di Sicilian Ghost Story si deve proprio a questo discostamento radicale dalle letture canoniche. Siamo in una profondità narrativa di rara fattura e i protagonisti, sradicati dai diversi contesti, assomigliano ad Anna Frank e Peter van Daan, battono il mondo adulto con il loro innamoramento adolescenziale che si legittima da sé e non ha bisogno di altro, innescano nella materialità delle giornate sogni e illusioni. Certo poi si ritroveranno a fare i conti con una realtà durissima e un'omertà strutturata nelle relazioni sociali.  
In una delle sequenze più belle Luna si immerge nel lago e sogna di ritrovare Giuseppe, in una profondità scura, protetto da un anfratto roccioso. L’esperienza onirica si interrompe con l’intervento del padre che la salva da un sicuro annegamento e la riporta a riva a contatto con il mondo fisico. E’ una della pochissime sequenze in cui la narrazione favolistica interferisce con quella reale e si incontrano.
In generale spazio e tempo vengono invece resi su un piano simbolico e fantastico, ricco di elementi chiave come la civetta, il cane rabbioso, lo zaino, i boschi, il disegno, il veleno per i topi, i capelli blu, gli stessi bidoni che contengono l’acido, le catene che tengono prigioniero Giuseppe e poi l’acqua, la roccia, il cielo in controluce che accoglie la protagonista sempre forte e caparbia che non si da pace e fa la guerra alla madre che la vorrebbe felice, che non si arrende e continua a cercare il suo amato compagno di banco.  
La fotografia di Luca Bigazzi, di grande pregio, aiuta molto lo spettatore a sopravvivere alla stupidità ed efferatezza della malavita e garantisce alla narrazione leggerezza, forza e intimità insieme.