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Penna in buca. Viaggio di nozze, primogenitura e frattaglie varie (Rubrica di Viviana Stiscia)

Penna in buca. Viaggio di nozze, primogenitura e frattaglie varie (Rubrica di Viviana Stiscia)

Noi siciliani invece, di regola, viaggiamo soltanto … beh, per ferragosto, dopo le nozze e, i più fortunati, per gli anniversari. 

Abito al centro di Palermo e, affacciandomi dal balcone mi accorgo che, effettivamente, non esistono più le mezze stagioni e neanche quelle intere: ma come fanno giapponesi, tedeschi e americani ad essere in vacanza 365 giorni e 6 ore all’anno? Me lo chiedo ogni santo giorno! Vestiti come solo loro sanno e possono fare con improbabili bermuda e sandali con immancabili calzini bianchi - e tutto ciò indipendentemente dal clima – sembrano vagare con le loro cartine geografiche, ma poi li becco sempre nei migliori ristoranti, quelli che ho scoperto dopo decenni che vivo nel quartiere ed anni che regolarmente mi faccio fregare con pietanze indigeste e conti salatissimi a chilometri da casa. Boh!

Noi siciliani invece, di regola, viaggiamo soltanto … beh, per ferragosto, dopo le nozze e, i più fortunati, per gli anniversari. Ora non mi dite che voi viaggiate di più perché siete tra i fortunatissimi che non rientrano nelle mie statistiche. Diciamo che non vi dò confidenza!

E a proposito di viaggio di nozze, potrei parlare proprio del mio, se così possiamo chiamarlo, ma proprio perché avvenne all’indomani del mio matrimonio, altrimenti non gli darei tale appellativo. E, allora, il mio viaggio di nozze durò una settimana secondo il seguente itinerario: Roma – Perugia – Assisi e … e … e … ritorno!

E sì d’altronde che cosa potevo pretendere di più, era tutto proporzionato alla mia età: 19 anni. E a 19 anni che si fa? Si fa il viaggio di istruzione. Però fu bellissimo. Arrivammo a Napoli con la nave. Vidi Napoli attraverso i vetri della macchina, giusto il tempo per poter intonare la canzone di Pino Daniele e neanche tutta perché alla seconda strofa eravamo già al cartello con la scritta Napoli barrata! Eppure avrei preferito visitare quella città piuttosto che Perugia, ma non ero certo talmente spudorata da esprimere desideri tanto arditi a quell’età, non sia mai!

Proseguimmo verso Roma. Giunti lì, ci accolse un alberghetto – mi pare si chiamasse La Pergola, nei pressi della Stazione Termini – non era pessimo, ma neanche un cinque stelle, eppure mi sembrò bellissimo, anche perché c’era un bel bagno. E che c’entra? Diranno i miei affezionati lettori. C’entra, c’entra. Immaginate voi di aver mangiato dei frutti di mare non del tutto freschi – forse anche non del tutto di mare – sulla nave la sera prima e poi viaggiare da Napoli a Roma in automobile. Ma voi, apprezzereste di più la stanzetta, il lettone, lo sposo novello o il cesso? Per quel che mi riguarda, apprezzai quest’ultimo, tutto il resto, al confronto, sparì d’incanto. Due giorni di esiti gastronomici ammortizzati dal fatto che a Roma si erano aperte le cataratte. Se anche avessimo potuto o voluto mettere un piede fuori dall’albergo, credo che avremmo fatto la fine di Mosè, sempre che qualcuno avesse avuto la bontà di salvarci.

Terzo giorno, giro di Roma alla Ridolini, idem con Perugia di cui ricordo soltanto i Baci – cioccolatini intendo – e qualche foto in cui mostravo orgogliosamente il mio loden verde militare uguale uguale a quello della mia compagna di liceo: lei lo metteva tutti i giorni a scuola, io me lo riservai per il viaggio di nozze. Ma chi se ne frega, ero felice lo stesso e mi stava pure meglio. Assisi fu un miraggio. Non mi risultò difficile capire come Francesco parlasse con gli animali. Basta che ti fermi un secondo e gli uccellini si poggiano sulla spalla a cinguettare. Ragion per cui, no comment sulle vite dei Santi, e andiamo avanti.

Terminato il viaggio rientrammo a Palermo per salutare tutti, riempire l’auto di regali, fare un po’ di acquisti e intraprendere il lungo viaggio verso l’allora ridentissimo (si fa per dire) paesino sull’Etna. Era il 2 novembre 1979, allora come oggi, in Sicilia si commemorano i Morti. E che facevano i bambini di allora in quel giorno? Le femminucce spingevano le carrozzelle nuove di zecca con le loro bamboline. I maschietti bang, bang, bang, si inseguivano sparandosi come i deficienti imitando gli altrettanto deficienti cow boys visti in TV. Giunti in un altro paesino in provincia di Catania, uno di loro, un piccoletto dalla maglietta rossa, per sfuggire ai colpi di pistola del compagno, attraversò come un razzo la strada e dove finì? Vi chiederete. Secondo Voi? Bravi, esatto! Finì proprio sul parabrezza della nostra auto, rimbalzando rovinosamente al suolo. Salto tutto il resto e vi tolgo dalle ambasce concludendo che il bimbo non si fece nulla, ma … (perché c’è sempre un “ma”).

Allora, avendo l’auto piena con un uovo e lo sposo novello tremante come un creme caramel, spinsi forzatamente al mio posto il meccanico che stava lì nei pressi, gli poggiai il bimbo sulle ginocchia e gridai di correre in ospedale. Venni accolta da una gentilissima signora alla quale raccontai tutto, anche che il bambino era stato sbalzato molto in alto. La signora mi diede dell’acqua, mi lasciò distrarmi giocando col bambino più piccolo mentre lei tornò a riordinare la cucina. Fin qui nulla di strano. Passavano le ore. Nessuna notizia. Non esistevano i cellulari e si era fatto già tardo pomeriggio. Finalmente giunse mio marito, bianco come un cencio. Mi disse che sembrava che il bimbo stesse bene, ma che avrebbe dovuto trascorrere la notte in osservazione da sveglio. A questo punto intervenne la signora dicendo: “Sappiate che se occorrono trasfusioni di sangue noi non diamo l’assenso perché siamo Testimoni di Geova”.

Rimasi sbigottita. Ebbene sì, miei cari, avete capito bene. Era proprio lei la madre del bambino e fino ad allora non mi aveva detto nulla ed era fresca come un quarto di pollo. E siccome il bambino era affidato alle mani del Signore, chi trascorse tutta la notte in ospedale per tenerlo sveglio? Sempre io, sì proprio io.

In compenso, però, dopo qualche mese, “i genitori di Geova” chiesero un risarcimento danni alla nostra assicurazione. Viaggio di nozze? The End.

Come dicevo, eravamo molto giovani e ci ripromettevamo di goderci un po’ quella libertà che mai avevo avuto prima o avevo osato pretendere fino ad allora. Ma … (perché c’è sempre un “ma”), c’era di mezzo una bazzecola, ma proprio una quisquiglia, una pinzellacchera - direbbe Totò – nessuno dei due coniugi utilizzava una benché minima precauzione. Il novello sposo, non si sa perché, la novella sposa, nonché sempre io, per assoluta e conclamata ignoranza in materia: forse pensavo che con la sola forza del pensiero si ottenesse il risultato voluto. E alla fine? Il 24 ottobre mi sposai, il 17 dicembre ebbi il risultato del test di gravidanza: positivo fuor di ogni ragionevole dubbio. Nonostante tutto, camminavo tre metri sopra il cielo!

Lungo la strada verso casa, comprai fiori e spumante. Forse non era dei migliori, ma che sull’etichetta portasse scritto e disegnate Tre corone, con la centrale più in alto e piccoletta, mi sembrò di grande auspicio.

Giunta a casa preparai una tavola elegantissima, cucinai un pranzetto con i fiocchi, fiori, candela accesa, spumante e calici sui quali poggiai l’esito positivo del test di gravidanza e, dopo aver spento tutte le luci di casa, mi nascosi in camera da letto in attesa che rientrasse per la pausa pranzo il puntualissimo maritino. Rincasando pronunciò il mio nome con tono passo passo sempre più allarmato, mentre andava accendendo le luci: prima l’ingresso, poi il salone, proseguì per il lunghissimo corridoio. Giunto alla soglia della cucina, mi illusi che la candela, lo spumante e i calici lo avrebbero tranquillizzato. Ma quando mai!

L’allarme diventò paura, la paura terrore. Mentre gridava il mio nome, accendeva tutte le luci di casa, spezzando ogni incantesimo. A quel punto uscii dal nascondiglio, prima che lo cogliesse un coccolone. Mi abbracciò in lacrime: aveva pensato fossi morta e che (ignoti) avessero organizzato il mio funerale (con tanto di spumante e calici!). Fu a quel punto che realizzai che fine avessi fatto.

Avendo viaggiato per tanti mesi da PA a CT quasi settimanalmente leggendo sui cavalcavia sempre le stesse deplorevoli imprecazioni :“Forza Etna” all’andata e “Se la merda avesse le ali il cielo sarebbe pieno di palermitani” al ritorno, che obiettivamente mi facevano tifare un più per il Catania, decisi, comunque, che il mio bambino nascesse a Palermo, ma solo perché in quella terra non volevo restare e temevo se ne innamorasse.

Data presunta per il parto il 26 luglio 1980. Ma … (perché c’è sempre un “ma”) questo bimbo o bimba, perché il sesso non lo conoscevamo, di nascere, non voleva proprio saperne. E i giorni passavano, il caldo aumentava, i miei piedi lievitavano, le ferie del novello sposo si esaurivano: le aveva prese tutte confidando nella puntualità mia e del primogenito.

Dopo una serie di visite delle quali dispenso volentieri i lettori, il medico stabilì che “ci saremmo fatti il ferragosto” e poi avremmo fatto nascere il bambino. “Ci saremmo fatti il ferragosto”? Ma diciamo le cose come stanno. “Ti vuoi fare il ferragosto “in santa pace mentre i miei piedi lievitano, la mia pancia esplode, mio figlio rinsecchisce e al novello sposo resta l’ultimo fine settimana di ferie! Tonta sono e di più la faccio.

Arrivammo al 16 agosto 1980, il grande giorno. Piano terra, entrando in Clinica seconda stanza a destra, lettino centrale. Uno di tre. Che bellezza: Ero sola. Erano le 12. Tra tutte le peripezie varie ed eventuali alle 18,20 del pomeriggio, nacque un bimbo spettacolare. Certo sembrava uscito dalla lavatrice. Mi ricordava la biancheria dimenticata in acqua due o tre giorni, tutta sgualcita ed anche se se ne vedono bene i colori e la forma se non la si distende e stira, non si può ammirare in tutta la sua bellezza. Ecco, così era mio figlio. Lo tennero tanto in ammollo, prima di optare per questo benedetto cesareo, che si stava sciogliendo, era tutto rattrappito e rinsecchito, povero cucciolo. Però i suoi fari azzurri, quelli che porta anche adesso in cima al suo metro e ottantacinque, erano già lì presenti all’appello.

Si fece sera e i due lettini, prima l’uno, poco dopo, l’altro, si riempirono, anche questi con due primipare. Quanta compassione nei miei confronti, perché allora essere sottoposte ad un cesareo – anche questa per me resterà un’incognita – era motivo di sentimenti di questa natura.

Alla mia sinistra, una matrona, bruna, alta, robusta, rideva come se assistesse ad un divertentissimo show e a chiunque le chiedesse il perché, rispondeva che stava nascendo il suo primo figlio, non c’era alcun motivo per piangere. Trasmise una gioia immensa anche a me che, onestamente, ero dilaniata dai dolori. Intanto, mia madre cercava di far comprendere alla mamma della partoriente alla mia destra che avrebbe dovuto utilizzare la padella all’uopo posizionata sotto il lettino per far vomitare la figliola e non la MIA bacinella portata da casa per lavarmi. Ma la signora sembrava non voler capire tacciando mia madre di poca generosità. Nel frattempo, tra un conato ed un altro, la giovane, cantava la canzoncina, allora di gran voga “mi scappa la pipì papà”, incurante del fatto che fossero le tre del mattino, come incurante del fatto che io fossi tutta suturata e cateterizzata era la di lei madre che di tanto in tanto decideva di fare un balzo – essendo il mio lettino piuttosto alto – e di sedersi esattamente in corrispondenza delle mie suture, giustificandosi con il fatto che dovesse preoccuparsi della propria figlia e non potesse pensare ad altro.

Neanche per me sperai tanto che il parto si risolvesse repentinamente e si mettesse fine a tanto scempio. Il bambino nacque e, finalmente, si trovò un po’ di pace.

Ma … (perché c’è sempre un “ma”) la ragazza venne vegliata per le rimanenti ore da una donna di cui non ricordo bene il volto, mentre benissimo i piedi e, soprattutto il loro colore e fetore, perché pensò bene, per non disturbare la parente, di poggiarli sul mio cuscino. Tentai inutilmente di svegliarla, ma – al suo posto ed involontariamente - svegliai la sorella della ragazza alla mia sinistra che innalzando le idee, prese dalla propria borsetta un bottiglietta di profumo a forma di coccinella e ne spruzzò qualche goccia sui piedi della signora che inevitabilmente si svegliò. L’effetto fu dirompente: l’autrice dello spruzzo, non sapendo come giustificarsi, disse che aveva tentato di colpire una zanzara. Io ridevo sotto le lenzuola mentre sentivo strapparsi la ferita per tutta la sua lunghezza, mia sorella fingeva di tossire per nascondere le risa; la signora assonnata tornava a dormire nell’identica posizione. Risultato? Dovetti tentare di prender sonno con i punti che mi tiravano da morire perché il solo ricordo di quella scena mi faceva scoppiare dal ridere, il tutto circondata da piedi neri, puzzolenti e gocciolanti di profumo di pessima qualità.

Arrivò l’ora della poppata e, con grande sensibilità umana, un’ostetrica mi disse che con quel seno infantile avrei potuto provarci, ma a parer suo non sarei mai riuscita ad allattare. Questo fu solo il primo di una infinita lista di decreti circa possibilità, limiti e modalità di allattamento di una primipara e della sottoscritta in particolare. Il perché è presto detto: una delle poppate avveniva durante il ricevimento dei parenti, dei parenti tutti. Allora, Dio li abbia in gloria, l’orario delle visite non prevedeva limiti al numero dei visitatori né, ahimè, al numero dei mazzi di fiori. Tre primipare cinquanta parenti, trenta mazzi di fiori al giorno. E fu proprio in occasione di una di queste visite durante le quali tentavo di allattare il bimbo, dando le spalle al pubblico in sala, che un signore mi disse. “La conchiglia ci vuole!”. La mia posizione, il fatto che non riconoscessi la voce di chi stesse parlando e che mi desse del tu, ma, soprattutto, il contenuto di quella esclamazione, mi lasciarono del tutto indifferente e proseguii nella mia ardua e dolorosissima impresa. Dopo pochi attimi, riprese: “A te colle spalle, la conchiglia ci vuole!”. Il cerchio si restringeva, le spalle le avevamo tutti, ma di spalle c’ero solo io. Senza voltarmi, risposi molto cortesemente che ci avrebbe pensato mia madre. Ma pensato a che? Ma che cosa ci avrebbe dovuto fare mia madre con la conchiglia? Fino ad allora io le conchiglie le avevo viste solo al mare, le avevo raccolte classificandole per forma e colore. Al massimo le avevo utilizzate per realizzare qualche collana se avevano il buchetto ad una estremità o per decorare qualche rete da marinaio con la quale foderare un cestino porta oggetti. E se si riferisse ai gusci dei frutti di mare “attipo” vongole o cozze? E cosa sarebbe cambiato? Forse si dovevano triturare, farne un intruglio da sciogliere in acqua e bere? Forse sì, ecco! Forse questo intendeva, il calcio del guscio. Ma chi glielo aveva detto che il mio latte era carente di calcio. No, neanche quella spiegazione era valida. Per fortuna l’ora delle visite era terminata.

Era giunto il momento fatidico della scelta del nome. Avendo subìto un cesareo, stetti una settimana in clinica e vidi più donne avvicendarsi nei lettini accanto a me, ma la prima alla mia sinistra, è quella che ricordo di più e con grande affetto e simpatia. Lei dovette dare, suo malgrado, il nome della suocera alla bimba, la chiamò Caterina. Guardando questa bambinetta scura, piena di capelli e non molto vivace, in effetti dormiva sempre, esclamò: “Bene, da oggi ti chiamerai Caterina e come diminutivo Cato”. E giù a ridere e i miei punti a lacerarsi!

Io, invece, fui fortunatamente esonerata da questo obbligo, anche se il nome del suocero, onestamente, non mi dispiaceva. Così col novello sposo decidemmo di scrivere su un foglio di carta ciascuno i nostri nomi preferiti con la libertà di depennare in seguito quelli che ritenessimo del tutto improponibili; tra i rimanenti avremmo estratto a sorte il nome di nostro figlio. Ebbene: lui scelse tutti i nomi dei suoi parenti anche i più lontani. Osò lamentarsi del fatto che ne avessi depennato circa il novanta per cento. Alla fine vinsi io: il bimbo si chiamò come il prete che ci aveva sposato e lo aveva battezzato, come secondo nome prese quello della Madonna e come terzo quello del ginecologo che lo fece nascere. Ma … (perché dove ci sono io c’è sempre un “ma”) col tempo, tanto io quanto mio figlio, perdemmo la fede ed io dovetti ricredermi anche circa la serietà professionale del mio medico. Insomma, una vittoria di Pirro!