Penna in Buca: Dondolo (Rubrica di Viviana Stiscia).
Il cielo a testa in su o a testa in giù non cambia molto, i miei occhi sono così alti che lo vedono comunque benissimo, se non fosse per le cataratte.
Dondolo e dondolo. Dorso a terra e zampette in su.
Tento, ritento, ma non c’è verso, e dondolo.
Quante volte da piccola mi capitava, lo facevo anche per gioco con le mie innumerevoli sorelle. Testina e zampette in dentro e giù per la collina, che spasso!
Poi era un attimo: esci il collo, tutto tutto, fai leva col becco, graffia la terra con una zampa e, voilà, il gioco è fatto!
Quante volte, ma quante volte.
Ora, però, non è per gioco né per amore, nessuno da conquistare con le mie prodezze, qui si tratta di vecchiaia. La mole è tanta, la corazza pesa e la forza non mi aiuta e allora meglio chiudersi dentro e riposare, la forza arriverà.
Col sangue che sale alla testa, mi sento un po’ brilla, ridacchio mestamente, come solo da vecchia mi vien da fare, pensando che, in fondo, a vivere così a lungo, ma che piacere c’è? Le mie sorelle, boh? Staranno indecrepitendo chissà dove, a me non mi guarda più nessuno, né bambini, né tartarughe, vecchia sono.
Eppure ho un’enciclopedia di storia nella testa, la racconterei tutta, se solo potessi uscire da questa dannata situazione. Sono stata al fronte io, eh sì, nessuno ci crederebbe, ma ci sono stata, eccome.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, tutti i giovani si erano travestiti da tartarughe ed io, matura, ma ancora in gran forma, col mio scudo naturale, mi ero schierata. Parteggiavo, sì parteggiavo per i Partigiani. Una notte, in montagna, dormivo accanto ad uno di loro, quando sentii arrivare una camionetta. Avevo imparato che i miei amici camionette non ne usavano. Allora erano loro, quelli che gridavano sempre, i cattivi, insomma. Cominciai a soffiare a quel ragazzo che dormiva con la bocca aperta e il moccio al naso come un bambino. Si svegliò. Era solo e terrorizzato. Si guardava intorno. Piano piano spinsi una cosa pesante, forse una pietra, vicino alla sua mano perché si potesse difendere, almeno un pochino. Lui se la trovò tra le dita, le diede un bacio e la lanciò. E che fu, un’esplosione? Insomma, i cattivi non li vidi più, il mio amico si salvò e i suoi compagni pure!
Ora, però, sarà il caso di riprovare, è inutile dormire sugli allori, qui o mi giro o muoio di fame e sento già la pelle staccarsi dalla corazza.
E allora, vecchia: esci il collo, tutto tutto, fai leva col becco, graffia la terra con una zampa e, voilà … macché. Riprova: esci il collo, tutto tutto, fai leva col becco, graffia la terra con una zampa e, voilà… niente da fare.
Basta, riposo, torno dentro, magari faccio capolino dal guscio, mi guardo la coda. Eppure, non è poi malaccio, sembra quella di un’ottantenne, e anche le zampe, ho solo due unghie spezzate, roba da nulla, le strofinerò contro una pietra e torneranno come cinquant’anni fa.
L’odore dell’erba e del trifoglio mi fa svenire, non mangio da giorni. Meglio che mi distragga.
Il cielo a testa in su o a testa in giù non cambia molto, i miei occhi sono così alti che lo vedono comunque benissimo, se non fosse per le cataratte, piuttosto meglio che stia attenta a quel gabbiano: Signor Gabbiano, sono viva, potrebbe spostarsi verso il cassonetto alla sua destra, cortesemente? Oh, ecco!
Ok, ritento, dai vecchia, dai, immagina di avere davanti a te la tartaruga che sai tu, avanti, fai la ruota: esci il collo, tutto tutto, fai leva col becco, graffia la terra con una zampa e, voilà … come non detto. Sei vecchia, rassegnati e dondola.
Ehi tu, ma che vuoi, aspetta un attimo, no, no, per caritàààààà.
“Non ti azzardare – tuona un anziano passante mentre blocca un bulletto nell’atto di colpirmi – non ti azzardare, ti ho detto, e vai via se non vuoi gustare il mio bastone!”.
“Vieni, cara, smettila di dondolare ed andiamo a fare due passi. Sai anch’io amo tanto dondolarmi, ma ogni tanto uscire all’aria aperta fa bene e, poi, si incontrano nuovi amici. Posso permettermi di offrirti un trifoglio? Io amo tanto raccoglierli e succhiare lo stelo del fiore. Mi ricordo quand’ero in montagna durante la guerra, sai non avevo nulla da mangiare, ero un ragazzo solo e terrorizzato …”.
Viviana Stiscia (*)
(*) Nata nel 1960, due giorni dopo Fiorello – saperlo la fa sentire più giovane – mai cresciuta, ancora in vita, sempre pronta a raccontare di questa aneddoti dolceamari, tanto veri quanto buffi. Ma anche amori, sogni, flussi di coscienza, mondi reali solo in un tempo che non c’è. Insegnante di filosofia e psicopedagogista, ma questo è soltanto ciò che fa, non ciò che è, e non ama si confondano le cose. Essere stata precaria ha forgiato la sua personalità al punto tale che ogni forma di stabilità la spaventa, tanto quanto l’anela. Madre di Alessandro, dedica a lui ogni attimo, ogni parola che, d’ora in poi, sussurrerà ai vostri occhi, se solo lo vorrete.
Foto: Viviana Stiscia fotografata da Giusy Tarantino