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Penna in Buca: Le dita del mio piede destro (Rubrica di Viviana Stiscia)

Penna in Buca: Le dita del mio piede destro (Rubrica di Viviana Stiscia)

Noi siamo LSU, Lavoratori Socialmente inUtili, come ben presto siamo stati etichettati da una popolazione troppo precipitosa nel giudicare. 

Sono seduta già da dieci minuti a fissare il mio piede destro ponendomi una domanda stupida anche da confessare: perché le dita del piede sono cinque e non tre, non basterebbero l’alluce, il terzo e il quinto dito? Certo ci saranno ragioni di natura anatomica. Non le conosco, ma non rinuncio a chiedermelo. Mi capita spesso quando sono pensierosa di sommare al pensiero più pressante un interrogativo privo di valore; lo faccio da quando ero bambina.

Lo sto aspettando. Arriverà in ritardo, come al solito, dopo aver trascorso la serata con gli amici al bar. Eccolo, forse questa volta sarà quella giusta, sarà disposto ad ascoltarmi. Entra, il suo fiato che odora di vino mi nausea, ma continuo a sopportarlo quasi fosse un dovere, un obbligo.

Mi saluta appena e accende la TV, poggia le scarpe infangate sul tappeto che ho appena spazzolato in ginocchio; non glielo faccio notare neanche più, i suoi sbuffi mi stancano più dei lavori domestici.

Questa sera ho deciso, voglio parlargli e pretendo che mi ascolti. Questo è un mio grave difetto, lo ammetto, ma se non mi impongo ed aspetto che mi chieda qualcosa posso stare fresca.

Ho saputo da un amico che si vergogna del mio lavoro, ma soprattutto della categoria di lavoratori cui appartengo. Siamo entrambi laureati, ma lui è stato “più bravo”, non si è piegato a questi miserabili compromessi lavorativi. E in quanto a me, mentre sfruttavo la mia laurea, l’Università sfruttava me proprio grazie a questo titolo di studi.

Un giorno scopro che si partecipa ad una selezione per titoli e sulla base dell’anzianità di disoccupazione: io sono lavorativamente anzianissima, visto che mai nessuno si è degnato di assumermi regolarmente e qui chiedono proprio una persona che possegga il mio diploma di laurea. Lui non lavora ed io ho dei figli da crescere.

Questa sera deve ascoltarmi, almeno lui non può condividere un odioso stereotipo che colpisce me ed i miei compagni di lavoro. Parlare di “carrozzone elettorale”, di un bacino di “delinquenti e nullafacenti” che tolgono lavoro ai giovani onesti, è talmente doloroso che non viene voglia di difendersi, ma lui no, lui non può.

Io credo che una società che pretenda l’aggettivo “civile” - poi mi si spieghi quali sono quelle “incivili” – debba prevedere un diritto diseguale che riguardi, nel mondo del lavoro, non solo i disoccupati di lunga durata, ma anche i diversamente abili e coloro che hanno scontato la pena per i propri reati e vogliano reinserirsi in società senza usare piedi di porco e armi.

La prima volta che ho varcato la soglia di un’organizzazione sindacale, l’ho fatto per capire di cosa si parlasse ed ho subito lamentato che non mi sentissi rappresentata. Ma nessuno mi ha rimproverata per questo, mi è stato detto che potevo essere io la prima, se solo avessi voluto. Ed io ho voluto.

Mi sono trovata in una realtà al 99% maschile ed estremamente diffidente nei confronti di una donna “c’à scuola”. Farmi largo non è stato, però, troppo difficile: sotto l’ala di due sindacalisti affidabili, è iniziata un’avventura lunga ed entusiasmante.

Ricordo ancora quanta paura dell’immensa folla davanti la sede del Comune o della Presidenza della Regione. La battaglia allora era dura, feroce direi. Io sapevo che avrei potuto e dovuto fare qualcosa per non smorzare quell’ “impeto e tempesta”, ma incanalarli verso l’obiettivo che ricercavamo tutti attraverso un uso efficace della parola, piuttosto che della forza fisica. Ma ciò che dovevo fare soprattutto era ottenere quella stessa fiducia che aveva determinato me ad aderire al sindacato e ad ogni iniziativa che condividevo.

In poco tempo e con mio immenso stupore sono riuscita nell’intento. Quante assemblee, quanti presidi e picchetti, persino l’occupazione della Cattedrale e del tetto del Teatro Massimo, fino ad ottenere l’emanazione della legge che ci apriva lo spiraglio ad una futura stabilizzazione.

Noi siamo LSU, Lavoratori Socialmente inUtili, come ben presto siamo stati etichettati da una popolazione troppo precipitosa nel giudicare. In quanti sapevano e sanno tutt’ora, che il termine Lavoratori è stato depennato e sostituito con Personale ASU, ovvero personale impegnato in Attività Socialmente Utile, perché noi non siamo Lavoratori, siamo disoccupati che percepiscono un assegno di disoccupazione pari ad un terzo del più basso stipendio, senza contributi, ma lavorando, non rimanendo a casa come avviene in tutti gli altri Paesi Europei. Siamo lavoratori in nero in servizio presso la Pubblica Amministrazione.

Gli dò una gomitata perché stia attento. Certo sono prolissa, ma parlo di venti anni di lacrime e sangue che lui vorrebbe spazzar via con uno dei suoi soliti sbuffi alcolici.

Quanti di coloro che vivevano ai margini della società hanno cominciato a sperare in una vita diversa. Io lotto con loro e non mi importa se dovrò sacrificare la mia laurea. Le vere lezioni sono quelle che sto ricevendo adesso, non quelle scritte sui libri tanto lontani dalla strada e dalla sofferenza.

“Sì io sono orgogliosamente una LSU, che ti piaccia o no!”.

Lo scuoto un po’, ma si è già addormentato. Ricomincio a contarmi le dita del piede.