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Penna in Buca: Tredici  Dicembre (Rubrica di Viviana Stiscia).

Penna in Buca: Tredici Dicembre (Rubrica di Viviana Stiscia).

Era un 13 dicembre …

Era un 13 dicembre, quando la nostra SuorAnna ci annunziò, mestamente, che una Consorella era passata a miglior vita. Margherita si chiamava e le margherite, di norma, appassiscono o tutt’al più, vengono spetalate in nome di un amore, se non mancato, umbratile. Ma quella non era appassita. SuorAnna Margherita, la SuorAnna delle “grandi”, era morta, morta stecchita.

Io delle “grandi” non sapevo quasi niente, tranne che ci guardavano dall’alto in basso – per scelta o per necessità - mentre parlavano di maschi e che il loro grembiule non era di rigatino bianco come il nostro, ma di un colore carta da zucchero, tale e quale a quello delle divise delle Signorine dell’UPIM. Meglio i nostri, c’era poco da guardare e sentirsi tutte.

Noi eravamo davvero piccole, magari troppo, ma non gliene importava niente a nessuno. Dovevamo essere pronte al grande passo. D’altronde, quante volte ci avevano detto: “Quando si muore, si va da Gesù Bambino. Non bisogna aver paura della morte. Piuttosto, bisogna essere sempre pronti per il grande incontro. Vestite a festa, con l’anima pulita pulita da ogni peccato”. E giù con preghiere, confessioni, comunioni, per chi ne aveva l’età.

“E, badate bene, se un vostro fratellino, dovesse morire non battezzato, andrebbe dritto dritto all’inferno. Quindi, dovrete imparare a memoria anche il rito del battesimo. Nel caso occorresse, anche voi potreste diventare Ministri di Dio”. Ed io ad immaginarmi con mio fratello o mia sorella piccoli, con la testa sotto il rubinetto del pilozzo in cucina, l’unico che potessi raggiungere in autonomia, salendo sul buttatoio a fianco. E questo anche se l’evento - triste o gioioso? Boh, non ne capivo più niente – fosse avvenuto dalla zia, ché il buttatoio lei pure ce l’aveva.

Quel 13 dicembre, alle quotidiane preghiere - quelle in latino non le sapevamo ancora, quindi davvero piccole eravamo – se ne aggiunsero tante di straordinarie, tutte in memoria di SuorAnna Margherita. Poi, in fila per due, verso il piano delle “grandi”. Ricordo la grande porta a vetri a più ante spalancata e, sul corridoio, nella bara aperta, esposta la cara estinta. Le “grandi” si avvicinavano, una dopo l’altra alla bara, ma non so cosa facessero, dalla mia bassezza non vedevo. Finito il loro turno, si disposero a semicerchio di fronte a noi che, una dopo l’altra, venivamo prese in braccio dalla nostra SuorAnna. Non ricordo se fui la prima, non ricordo se fui l’ultima, ricordo solo che l’emozione di stare in braccio alla mia SuorAnna mi faceva battere il cuore all’impazzata. Neppure osai passarle il braccio sinistro dietro il collo, nel timore di essere troppo ardita. D’improvviso, fui calata a testa in giù nella bara e udii soltanto una voce imperativa dirmi: “Bacia SuorAnna Margherita, baciala”. Il suo volto era coperto da un velo che ne celava un po’ i tratti, ma la temperatura no. E fu così che scoprii che da Gesù fa freddo, tanto freddo.

Era il 13 dicembre e non posso sbagliarmi, perché in quel giorno mio padre festeggiava il compleanno ed io gli sarei corsa al collo, all’uscita di scuola, come sempre e anche di più. Ma non lo feci. Papà mi prese in braccio e tentò di baciarmi. Lo allontanai con delicata decisione. “Ma che hai? E’ successo qualcosa? Lo sai che mi puoi raccontare tutto. Non preoccuparti, non lo dico neanche a mamma”. Lui lo sapeva che la mia preoccupazione nella preoccupazione era la preoccupazione di mamma. Una preoccupazione al cubo, insomma. Ma questa cosa non potevo raccontarla neanche a lui. Era grave, troppo grave.

Nei cadaveri c’è la cadaverina, ed io avevo baciato un cadavere e adesso sarei morta, sicuro. Ma io mi ero confessata e sarei andata da Gesù. E papà? Lui non ci andava mai in Chiesa. Se non fosse stato per il nonno, non ci avrebbe mandate affatto da ‘ste teste ‘nfasciate.

E che nei cadaveri c’è la cadaverina io lo sapevo perché ce lo aveva detto proprio lui a tavola. Era stata una di quelle volte in cui aveva indossato le vesti da Piero Angela per intrattenerci a tavola. Papà era un ingegnere, ma proprio in quegli anni aveva deciso di frequentare Medicina. Era entusiasta dei suoi studi e voleva condividere la sua gioia in famiglia, anche a tavola, c’è niente di male? E, invece no, perché proprio quando le sue descrizioni si arricchivano di dovizie di particolari, anche cruenti - “ché l’anatomia è anatomia” -  la mamma gli azzeccava un calcio che lo stinco destro, nero lo doveva avere. “Ma perché fai così? A loro interessa. Vero bambini?”.

La più piccola era troppo piccola per partecipare, lei aspettava con pazienza che la più grande togliesse, dal suo minestrone di verdure, “tutte le cose colorate”. Tutte, ma proprio tutte, le facevano impressione, ma il minestrone lo voleva. Mio fratello, invece, avrebbe voluto trovarsi in sala settoria con papà. Era preso, affascinato, direi. E mamma tirava un altro calcio a papà che, dolorante, alla fine desisteva. Io pendevo dalle labbra e dalle preoccupazioni di mamma, ma papà mi divertiva troppo. Il racconto ricominciava dietro l’immancabile minaccia del piccoletto: “E io non mangio!” e si piantava il pollice in bocca: il lasciapassare davanti al quale ogni resistenza materna crollava.

Era un 13 dicembre, dunque, ne sono certa. Giunta a casa, mi lavai la bocca con il sapone al Lysoform, presente come il pane sulla mensa, in casa nostra. Lavai i denti con il dentifricio e poi col bicarbonato e qualche goccia di acqua ossigenata “che, ogni tanto, per smacchiare i denti si può usare, non spesso che rovina lo smalto!”. Forse così non avrei “contagiato” nessuno, d’altronde il Dottor Manson de “La Cittadella” in TV sezionava i cadaveri e faceva nascere i bambini e gli bastava lavarsi le mani tra una cosa e l’altra. Sì, però, un paziente gli era morto e io non lo sapevo perché.

… Dopo quel 13 dicembre

Non passarono molti giorni. Una sera, papà rincasò e, come nostro solito, tutti e quattro gli corremmo intorno a fargli festa. L’avremmo riconosciuto tra mille il rumore delle sue chiavi nella toppa. Quella sera fu lui a tenerci lontani. Quella sera fu lui, proprio come avevo fatto io il 13 dicembre.

“Bambini andate da mamma, arrivo subito da voi” e, furtivamente, sgattaiolò con la borsa da lavoro nel suo studio adiacente all’ingresso di casa. La vista di mamma era in progressivo declino, ma ne aveva quel tanto che, unita al suo udito e ad un intuito da investigatore privato, la portavano a coglierlo sempre in flagranza.

Gli altri tre si erano lasciati distogliere dal gioco, ma io no, io. Sapevo che, di lì a poco, la tragedia si sarebbe consumata. E così: “Scendi immediatamente. Immediatamente ti ho detto, e butta tutte ‘ste cose. Tu sei un pazzo! Se sono queste le tue idee, per quel che mi riguarda, puoi anche ritirarti dagli studi. Mi dispiacerebbe moltissimo, se lo facessi, ma ricordati che non sei un eremita. Abbiamo quattro figli e non approfittare che, con loro, ho sempre il tappo in bocca!”.

E chiamalo “tappo in bocca”, pensai. Ma io mia madre la conoscevo bene, anche se tifavo sempre per papà. Questa volta doveva averla combinata davvero grossa.

Cosa successe quel giorno lì, lo scoprii solo da grande. Il nostro Archimede Pitagorico domestico, nella sua borsa da lavoro, aveva un pezzo anatomico. Aveva un occhio umano, generosamente “pescato” per lui - dalla vasca dei pezzi d’uomo - da chi aveva saputo delle intenzioni di mio padre che erano le stesse che lo avevano spinto – da ingegnere -  ad intraprendere gli studi di medicina. Papà avrebbe voluto sezionare in casa quell’occhio e scoprirne anche quanto l’anatomia umana d’allora non conosceva ancora, per poter realizzare egli stesso tutte le apparecchiature e gli strumenti necessari ad un trapianto da uomo a uomo. O, meglio, da uomo a donna: da papà a mamma. “D’altronde – ecco come si giustificò -  non si dice, io darei pure un occhio per lei? Ed io davvero lo darei uno dei miei occhi per te!”

Ma la mamma non glielo fece mettere l’occhio accanto ai nostri formaggini. Che donna ingrata.

Viviana Stiscia (*)

(*) Nata nel 1960, due giorni dopo Fiorello – saperlo la fa sentire più giovane – mai cresciuta, ancora in vita, sempre pronta a raccontare di questa aneddoti dolceamari, tanto veri quanto buffi. Ma anche amori, sogni, flussi di coscienza, mondi reali solo in un tempo che non c’è. Insegnante di filosofia e psicopedagogista, ma questo è soltanto ciò che fa, non ciò che è, e non ama si confondano le cose. Essere stata precaria ha forgiato la sua personalità al punto tale che ogni forma di stabilità la spaventa, tanto quanto l’anela. Madre di Alessandro, dedica a lui ogni attimo, ogni parola che, d’ora in poi, sussurrerà ai vostri occhi, se solo lo vorrete.

Foto: Viviana Stiscia fotografata da Giusy Tarantino