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Me (storia e foto ispirati da una passeggiata sul lungolago di Piana degli Albanesi)

Me (storia e foto ispirati da una passeggiata sul lungolago di Piana degli Albanesi)

 Mi riprendo la mia vita, piano piano le ali si stanno riabituando a spiegarsi per volare

Mi ha spezzato le gambe, mi ha spezzato le ali. Dieci anni in apnea, una vita di inferno, senza pause. Poteva accadere da un momento all’altro che perdesse la pazienza e il controllo: una camicia fuori posto, il caffè più lungo del solito, le scarpe sporche di fango, un messaggio a cui non avevo risposto. La macchiolina sulle scarpe poteva essere anche una piccola opacità sul lato interno che neanche con il cannocchiale potevi accorgertene.
Non lavoravo da due anni, avevo perso il lavoro anche per stare dietro le sue piccole ossessioni. Il mio datore che era un privato molto esigente mi voleva serena, dietro il banco dalle sei del mattino alle sedici, sorridente e pronta a sgombrare la testa dei clienti dai loro pensieri e preoccupazioni. Servivo i caffè nel bar dell’ospedale civico e gli infermieri e i medici non sopportavano musi e occhi assenti. Io ero incasinata di Lui, gli stavo appresso come uno psicofarmaco omeopatico e speravo che lui reggesse, tenesse con sé i suoi miserabili equilibri sino alla mezzanotte. Non voleva parlarne con il medico; se citavi la parola psichiatra o psicologo, o semplicemente aiuto, volavano calci e mi toglieva le chiavi di casa per giorni. Se era sua madre a parlagliene o sua sorella, a casa poi mi riempiva di botte.  

Ero una specie di amica, compagna, moglie o amante quasi mai. Negli ultimi mesi abbiamo fatto l’amore solo un paio di volte, il sabato pomeriggio senza parlare e senza un abbraccio, due disperati incapaci di guardarsi negli occhi. A volte fingevo di stare male ed andavo a dormire prima, nella speranza che non mi svegliasse.
Una sera uscì per andare a comprare le sigarette e al ritorno mi svegliò di botte, non era la prima volta. Quando ti svegli per un ceffone freddo come la pietra o perché ti strappano i capelli non ti abitui al dolore, non dimentichi. I miei capelli lunghi sono forti e riusciva a buttarmi dal letto e a trascinarmi come fanno a volte i fratelli dispettosi con le bambole.

Quella sera aveva notato che avevo sciupato qualche litro di benzina e lui che si annotava tutto non si dava pace, soffriva come un cane per quella lancetta che si era abbassata sotto le sue attese. Succedeva spesso, il livello di carburante si fissava nella sua cazzo di testa come una cartolina.
Rientrò con l'immagine di quel pezzo di cruscotto in testa e mentre dormivo mi piazzò l’ennesimo cazzotto schiacciandomi la testa sul cuscino.
E’ stata l’ultima sera in cui abbiamo dormito insieme. Alle cinque sono sgattaiolata e sono andata via con il primo autobus, da sola, senza figli (per fortuna lui sterile) cercando riparo da mia cugina. Settanta chilometri infiniti, ho pianto per tutto il viaggio, tappandomi il cotone emostatico per paura che il naso riprendesse a sanguinare. 

Ora con le ali ancora spezzate mi alzo e mi rialzo ogni mattina. L'ho denunciato e non si può più avvicinare.

Le ali di una donna che subisce violenza domestica non ricrescono, i segni si vedono per tanto tempo, sono segni che albergano dentro il cuore e negli occhi che spesso si inumidiscono a causa dei brutti ricordi.
Però si riprende il volo e si prosegue la ricerca personale e faticosa di un posto diverso, magari pieno di fiori dove il massimo che ti possa accadere è integrarti con il paesaggio, leggera e protetta dai colori pastello come questa farfalla.
 

IMMAGINE

Photo e testo: Carlo Baiamonte