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Le Sigaraie perdute

Le Sigaraie perdute

L’archeologia industriale, a prescindere dai luoghi e dal tipo di edificio e architettura, ha sempre affascinato e gode di un riconoscimento che va oltre la determinazione economica e di consumo degli spazi.

IMMAGINEFoto di Giusy Tarantino

In via Simone Gulì, a Palermo, nel quartiere Acquasanta, in un’ampia area chiusa tra i cantieri navali e il cimitero inglese sorgeva la più importante Manifattura Tabacchi siciliana, dismessa nel 2001. Due ettari abbondanti di storia, in cui si respira l’aria del lavoro delle fabbriche popolate da operaie. Un destino che lega con un filo sottile le migliaia di donne palermitane che hanno fatto la storia di questo stabilimento alle compagne americane che lavoravano nelle piantagioni. Tutte queste donne hanno respirato tabacco, non certo per libera scelta, segnando una tappa importante nel processo di emancipazione femminile. Molte di loro, a causa della tipologia di mansioni e del contatto continuo con sostante chimiche fortemente nocive, hanno perso la vita dopo una lunga sofferenza dovuta alle complicazioni alle vie respiratorie. Le sigaraie, insieme alle mondine, sono le figure più affascinanti della letteratura operaia ma anche i soggetti che più di altre categorie si sono ammalati irrimediabilmente di TBC, cancro ai polmoni, enfisema, malattie infettive.

IMMAGINEFoto di Giusy Tarantino

Oggi con un gruppo di amici dell’associazione AFA di Palermo (Associazione Fotografica Alesina) abbiamo trascorso una gradevolissima mattinata alla scoperta di questo spazio vitale della nostra città. Una scoperta corale, tanti scatti fotografici ma anche un moto di coscienza individuale, la presa d’atto che il tempo lascia tracce pesanti e polverose, trascina la vita delle persone e, senza l’impegno della collettività tende a trasformare i luoghi vitali in residui archeologici, storie che verranno dimenticate.

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Foto di Giusy Tarantino

La vita delle fabbriche va tramandata e raccontata perché, diversamente da quanto accade nella nostra società oramai immolata all’immateriale, luoghi come la manifattura tabacchi siciliana odorano di vissuti, aspettative e sogni. A distanza di 18 anni è come se tutto si aggrovigliasse e si miscelasse al sudore dei turni, alle temperature dettate dai forni che rendevano le ore più lunghe e la fatica quotidiana una costante senza pause.

IMMAGINEFoto di Carlo Baiamonte

Ma chi sono le sigaraie, così come vengono denominate in un documento del 1885 conservato all’Archivio di Stato di Palermo? Sono - leggiamo sul documento - “donne tutte superiori agli anni 29, poche nubili e la maggior parte maritate o vedove, delle quali 634 a cottimo e con un guadagno medio giornaliero di lire 1,65. L’orario di lavoro è quello stabilito dal regolamento e non eccede le 8 ore al giorno”.
Sono innanzi ad ogni cosa operaie e le operaie, nei sogni e nelle faccende che devono svolgere ogni giorno, si assomigliano tutte. Quando pensiamo alle dure battaglie per affermare il genere femminile dobbiamo ricordare che le sigaraie che lavorano in fabbrica erano anche nella maggioranza dei casi anche mamme e compagne, dovevano assistere a loro volta i genitori anziani, e lottavano su un triplo binario: per i diritti dei lavoratori con un attivismo sindacale forte e contro un datore che si chiama monopolio di stato, per l’affrancamento dal ruolo domestico, per l’affermazione (poiché si tratta di donne che appartengono agli strati popolari) di condizioni migliori, sotto tutti gli aspetti della vita.
Oggi dentro questo spazio, inserito con successo di pubblico nei percorsi monumentali delle Vie dei Tesori, in cui il tempo non sembra essersi fermato, si immaginano progetti per la riqualificazione, si ipotizza con quella progettualità (tipica dei siciliani) a lunghissimo termine, una riconversione dello stabilimento capace nel tempo di attrarre risorse e flussi turistici.

IMMAGINEFoto di Patrizia Bognanni

Non sarà una operazione semplice perché viviamo una fase in cui, nella nostra città del sud, si assiste più ad una fuga dell’esistente che ad un incremento di investitori. Questo spazio però è davvero interessante e nella rete degli stabilimenti dismessi costituisce un’eccezione.

IMMAGINEFoto di Giusy Tarantino

Cosa facciamo frattanto che gli investitori mettano a punto un bel piano di riqualificazione?
Intanto godiamoci questa dimensione surreale in cui aleggiano, con la forza dell’immaginazione, le figure delle nostre operarie. Le loro aspettative, le lotte sindacali, i piccoli progetti e il coraggio di resistere per mantenere una stabilità occupazionale, sono ancora nelle sale, costituiscono una energia circolare che fa respirare e rende la luce che filtra dalle aperture piena di quella forma di umanità e di socialità che ogni giorno sino al 2001 si faceva strada tra i macchinari e sfuggiva allo sguardo sorvegliante dei dirigenti e dei capireparto.

La fornace in questo complesso però domina la scena. A tratti  intimorisce, anche se spenta e desolatamente trasformata nel cimelio di una operosità che è svanita.

IMMAGINEFoto di Carlo Baiamonte

Un grande orologio campeggia in una delle sale più grandi. Si è fermato alle 14:48 o quasi alle tre di notte, non ci è dato saperlo. Non smetto di guardarlo perché segna una specie di spartiacque tra la vita e la morte, il movimento e la staticità, delinea un tempo che non ci appartiene e che si è sedimentato sulle tracce delle piccionaie.
Guardi le lancette ferme e pensi a tutte le volte in cui le sigaraie, giovani e adulte, stanche e sognanti, sensuali o appesantite dalle gravidanze e dal lavoro a casa, lo avranno guardato nell’attesa di finire il turno.

IMMAGINEFoto di Maria Elena Vindigni
 
Il tempo fisico e  produttivo, in generale e per gli operai, acquista un valore doppio e triplo soprattutto al termine di un turno, quando diventa residuale, hai superato le quattro-cinque ore ed hai imboccato la parte più interessante della giornata in cui ti approssimi alla libertà di tornare a casa.  Quell’orologio però è moderno, sembra degli anni sessanta ed è stato attaccato al tetto dopo che le sigaraie, a partire dagli anni venti, avevano posto rivendicazioni, affermato diritti, combattuto e pregato durante la seconda guerra mondiale perché le bombe degli alleati non demolissero la loro fabbrica, fonte unica di sostentamento. Le guerre più difficili da combattere sono però dentro i processi economici.

IMMAGINEFoto di Carlo Baiamonte

Ci accorgiamo presto che i calendari appesi sulle pareti delle sale sono tutti dell’anno 2001. Questo numero diventa nel percorso guidato una specie di mantra che ci segue, un pezzetto di tempo fissato nel momento in cui le luci della fabbrica si sono spente e con esse buona parte dei sogni delle sigaraie.

Lorabuca, blog di Carlo Baiamonte, *Tutti i diritti riservati (Testi e foto)