Le parole, le cose e la pandemia
“Le parole e le cose” è il titolo di uno dei saggi più interessanti che abbia mai letto. Quello affrontato da Michael Foucault è un argomento ostico, difficile, perché l’autore si muove in un terreno in cui non ci sono categorie filosofiche conosciute e familiari. Mi è tornato in mente in questi giorni, in tempi straordinari di quarantena. Costretti alla permanenza nelle nostre case anche i processi di pensiero cominciano a discostarsi dai sentieri abituali. Se volessimo condensare in un concetto semplice la posizione espressa da Foucault potremmo affermare che le cose appaiono sotto i nostri occhi e si materializzano, trasformandosi in oggetti che stimolano un certo interesse, quando usiamo una parola per nominarli. Non se li chiamiamo occasionalmente, una volta o due in un tempo discontinuo o ne sbagliamo la denotazione ma quando, insieme agli altri, in una coralità che è anche psico-socio-linguistica, cominciamo a nominarle e a tracciare un senso univoco, dentro una discorsività comune.
La dimensione entro la quale parliamo delle “cose”, assegnando una parola ad un fenomeno, una rappresentazione formale, non è di pertinenza psicologica. Seppure questa componente sia presente è solo un effetto secondario. Le cose piuttosto tendono a strutturarsi nel mondo attraverso le parole, alimentando un tipo di narrazione che legittima la sfera materiale in cui gli oggetti acquisiscono uno status, una radicalità assoluta rispetto alla pluralità di significati e di rappresentazioni che possono assumere. Le cose non sono libere e la loro esistenza si determina attraverso le parole.
In questa fase di crisi della salute pubblica alcune tra le parole che utilizziamo sono nuove ma anche le parole vecchie o vecchissime hanno acquisito significati differenti. Intorno al Covid-19 abbiamo creato un piccolo vocabolario, riabilitato tantissime parole. Proviamo a produrne un lungo elenco: terapia intensiva, antivirali, vaccino, quarantena, assembramento, D.P.C.M., spesa, lievito, pandemia, supermercato, beni di prima necessità, cassiera, infermiera, cane, beni essenziali, mascherina, guanti, amuchina, disinfettante, sanitari, didattica a distanza, insegnanti, baci, runners, tosse secca, febbre, abbracci, un metro, medici, carta da forno, ventilatori, rianimatori, pizza, inno nazionale, governo, anziani, patologie pregresse, casa. Queste parole erano poco utilizzate e non godevano di alcuna fama, erano quasi mortificate dentro i sistemi discorsivi del registro burocratico e del registro ordinario. La parola più famosa, pandemia, era già stata utilizzata nel 2004 e nel 2009 in occasione della circolazione minacciosa di altri virus ma oggi, questa parola, ha assorbito altre parole: epidemia, contagio, untore, nemico, polmonite, morte, solitudine.
Affermare che le parole sono le cose e che ciò si determina in maniera strutturale significa che lo spazio della consapevolezza simbolica quando comunichiamo è fortemente ridotto. Io credo però che nella cornice narrativa dettata da questa emergenza si delinei la possibilità di parlare della pandemia, e di usare le altre parole correlate, con un grado sostenibile di libertà di pensiero. Può sembrare un paradosso che in un momento di grande limitazione dei diritti alla mobilità individuale e sociale, di interruzione di quasi tutte le attività commerciali i cittadini abbiano recuperato un buon margine di libertà, stiano facendo esperienza di una buona dose di pensiero critico, dentro le loro case, non incontrando colleghi, amici, fidanzati/e, con mezz’ora d’aria al giorno (se hai un cane), le mascherine a coprire la bocca e l’autocertificazione debitamente compilata.
Credo invece che stiamo sperimentando una forma di libertà anche linguistica ed espressiva, che questo cambiamento stia interessando un po’ tutti, perché nel marasma di un’informazione vocata esclusivamente a trattare la pandemia, come se il mondo si fosse fermato, siamo stati costretti a formarci un’opinione, un punto di vista accettabile per dare senso a quanto ci stava capitando ed a tutto il resto. E’ una questione molto semplice di sopravvivenza del singolo che le neuroscienze conoscono bene e che pressappoco funziona così: “Se qualcuno mi impone una serie di divieti personali, che limitano la mia libertà individuale e fanno cessare abitudini e automatismi in cui mi identifico, il mio cervello si difende elaborando una o più giustificazioni.” Il Covid 19 all’inizio non rappresentava una minaccia ma poi il sistema, in maniera precipitosa, sul contamorti quotidiano dei media, ha deciso per il bene di tutti, di interrompere la consueta socialità liberale, libertaria, consumistica, produttiva di reddito. Dopo una, due, tre settimane la pandemia nell’uso nuovo della parola è diventata una grave minaccia mentre la limitazione della libertà, il sostare nella propria dimora sono diventate la promessa di un futuro, un richiamo all’amore per il prossimo, il riconoscimento dei diritti dell’altro.
Nella discorsività nuova ci siamo dovuti reinventare e il processo è ancora in corso, abbiamo deciso di testimoniare il nostro punto di vista sulle cose, sugli spazi fisici ed emotivi, spazi che sono angusti e chiusi ma possono diventare infiniti allo stesso tempo, una prateria assolata piena di incontri con l’altro, a partire però dall’incontro fondamentale con noi stessi.
Oggi raccontiamo i nostri pensieri e impariamo a perdere tempo come le intelligenze ruminanti che piacevano a Kant. Cantiamo e balliamo dai balconi, prepariamo la pizza, presentiamo i nostri pelosi al mondo attraverso Skype, facciamo amicizia e, se capita, mandiamo affanculo l’altro ma in un sistema di tutele della salute pubblica a cui ci siamo quasi tutti sensibilizzati. Parafrasando Voltaire: “Non sono d’accordo con te ma darei la vita per non contagiarti.” Più liberi di così.