
La scuola non è una giostra chiusa
La potenza dei numeri e la scuola diventata ostaggio della pandemia
La pandemia è un fenomeno globale e su questo aspetto credo nessuno possa obiettare. Sanità ed economia sono i settori in cui gli effetti si sono dispiegati in maniera effettuale, con dati alla mano, raccolti progressivamente.
Anzi in tutta l’area della tutela della salute pubblica la condotta della politica si è ispirata all’analisi dei dati, la cosiddetta curva epidemiologia. I dati sono stati aggiornati ogni 24 ore con tanto di megafono istituzionale del Presidente del Consiglio, dei rappresentati del governo o del comitato tecnico-scientifico. In buona misura i dati elaborati e processati hanno prodotto degli apparati decisionali che man mano si sono rafforzati, a scapito della dialettica e del raffronto nella sfera pubblica con altri rappresentanti della scienza, spesso archiviati e censurati come non scienza mentre la comparazione con altri modelli e condotte politiche è stata marginalizzata. Oggi assistiamo ad una triste identificazione della comunicazione scientifica con la divulgazione, del giornalismo specializzato con la stampa generalista.
Dopo dieci mesi di pandemia lo stato della cultura e dell’opinione pubblica in Italia e nel mondo, con tutto ciò che il lessico “cultura” comporta e implica in termini di significato è profondamente cambiato. E’ sparita una massa di eventi che in genere, senza che ne abbiamo consapevolezza, facilita la dialettica sociale e funziona come un buon ammorbidente per i panni sporchi. La cultura odora e profuma di buono impedendo la rottamazione compulsiva di quanto, in un preciso momento e contesto, dai decisori dell’economia viene considerato inutile. Anche la peggiore rappresentazione teatrale, il film di botteghino, lo spot più insulso (penso a quello della Tim che con la voce di Mina ha invaso tutte le case statalizzando la réclame come non accadeva dagli anni settanta) producono cultura e fanno bene alla salute dell’arte, all’integrità psico-fisica della collettività.
I dati però sono potenti, i numeri sono attrattivi, in termini positivi (due-tre orgasmi durante un amplesso, un milione di dischi venduti, il sold out ad una prima) ma anche in termini negativi. Ancora fa clamore il 47% di positivi in una giornata di tamponi processati recentemente in una città del sud o la curva degli 800 decessi al giorno di tre settimane fa.
A fronte della potenza dei numeri viene a mancare la vitalità del teatro e non ci sono i libri e i film che resistono, per quanto possibile, nelle presentazioni on line e nelle scorpacciate sulle pay tv. E’ sparita una fetta importante di informazione, offuscata dall’informazione generalista che ha trasformato la pandemia nell’unica notizia e indotto i palinsesti a uniformarsi, creando una pantomima quotidiana in preda agli effetti boomerang tra informazione forte, pervasiva, moralista e ufficiale, controinformazione utile ma debole, massa di fake pilotata da un’opposizione irresponsabile.
La prima possiamo paragonarla al menu di un pranzo ricco e solenne, la seconda al pranzo effettivo e con ciò che abbiamo lasciato sul piatto, la terza agli effetti che un pranzo può sortire su uno stomaco debole e malaticcio. Alla fine, seduti intorno al tavolo le valutazioni dei commensali orbiteranno solo tra le promesse formulate nel menu e i mal di pancia. Nessuno si prenderà la briga di far sapere allo chef che i piatti presentavano dei difetti e potevano essere migliorati. Il primo gruppo, con aria snob e ampiamente soddisfatto dalle promesse realizzate si alzerà dal tavolo e si congederà; il secondo gruppo si gratificherà delle discussioni infinite sui piatti e sul futuro; il terzo farà la fila in bagno.
Torniamo alla misurabilità ed alla forza dei numeri, alla pratiche più o meno condivise che si alimentano dei numeri perché nel fenomeno globale della pandemia si trascura un aspetto della comunicazione, del modo in cui dentro la bolla virale, mossa questa volta da un virus autentico, si nominano le cose, si interpreta e si discute.
La pandemia, in termini di comunicazione rappresenta una sorta di velo di Maya che puoi scoprire di volta in volta, gradualmente, in modo però che non si procede in un percorso di liberazione dall’apparenza, dalla superficialità ma di sovrapposizione di interessi e di punti di vista.
I numeri, se sono robusti, consentono di tracciare l’interpretazione e giustificarla, sublimare la paura e rendere ergonomica la discussione. Oltre i numeri o senza i numeri le giustificazioni fanno a pugni invece con gli interessi, le ideologie, i pregiudizi, i sentimenti ancestrali radicati nell'inconscio collettivo. Certo se provo un sentimento di sfiducia verso la collettività e le istituzioni non posso certo fidarmi dei sanitari e sarò costretto, da buon negazionista, a disconoscere l’oggettività dei dati.
Il negazionista è in questo senso un fossile, non si limita a discutere e salta il fosso di ogni pensiero e procedura razionale. Perché anche i numeri più potenti presuppongono una cornice interpretativa sgombra però da pregiudizi, da elementi non sottoponibili alla controprova dell’argomentazione. I negazionisti non li convinceremo ma si potremo agire sulla fascia diffusa degli indecisi che vivendo nel limbo dell'informazione e della controinformazione si lasciano sedurre dalle sirene del negazionismo, dalla promessa biblica di un mondo libero.
Nella riformulazione dei temi, dentro la comunicazione globalizzata sulla pandemia, un discorso a parte merita la scuola, una macchina fortissima che funziona ancora e fa servizio pubblico, costituendo insieme alla sanità l’unica frontiera salda dello stato sociale. Nonostante l’assenza di politiche scolastiche efficaci e capaci di stare al passo dei cambiamenti socio-educativi, dell’evoluzione della ricerca didattica e dei saperi, la scuola sta ancora in piedi, tenuta a forza prevalentemente dal corpo docente, dai dirigenti e dal personale.
La scuola è un colosso, un monumento di democrazia viva, il contraltare della famiglia italiana (non sempre autorevole e democratica, spesso distratta), il versante laico che ha prodotto esperienze fondamentali per la crescita civile di un paese tradizionalmente cattolico e chiuso.
Anche la scuola è piena di difetti e i docenti, come nella sanità, nell’ordine pubblico e nell’amministrazione della giustizia non sono tutti uguali e vantano il loro bugiardino. Ci mancherebbe altro, se non fosse così la scuola non produrrebbe cultura e avremmo tra i docenti i negazionisti dell’istruzione. Invece i docenti sono una comunità parlante, a prescindere dalla pandemia, dalle catastrofi, dai disconoscimenti e dalle politiche scolastiche.
Discutere di scuola nella cornice della pandemia è molto complicato, soprattutto per i docenti che, in conflitto con le politiche di riforma adottate negli ultimi trent’anni, oggi si trovano nella delicata e doppia posizione di lavoratori vulnerabili ed educatori di minori adolescenti reclusi in casa da marzo. Gli interlocutori delle istituzioni di governo, sulla base dei termini della dialettica fissata sulla riapertura prevista per l’11 Gennaio o sullo slittamento, non sono credibili. La discussione sulla scuola rischia ogni giorno di ideologizzarsi perché non può dipendere unicamente dalla valutazione positiva o negativa della dad, dal potenziamento del sistema di trasporto e delle infrastrutture. Una dialettica praticabile sulla scuola potrebbe in realtà svolgersi in termini di numeri e dati organizzati, messi a disposizione dalle parti in causa, coinvolgendo studenti, famiglie, docenti e personale.
Tra i numeri però della pandemia che spaventano non ci sono i numeri che riguardano la scuola. Non sappiamo nemmeno quanti contagi sono maturati dentro le scuole perché è saltato ogni meccanismo tracciabilità. Per questa ragione è sconsigliabile ogni discussione sul futuro della scuola non condotta dentro pratiche argomentabili con numeri alla mano. Per questa ragione non è possibile nemmeno avviare un confronto tra differenti visioni della scuola in piena pandemia.

