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In principio era il tempo, ora gli haters

In principio era il tempo, ora gli haters

Gli haters hanno appena iniziato e i social sono il terreno delle loro scorribande

Sul tempo si è innescato un meccanismo di radicale distorsione che ha investito la sfera soggettiva, lo stile, il modo di vivere e rappresentarsi concretamente le cose.
In pieno futurismo la parola ‘velocità’ era diventata il paradigma principale di lettura della realtà. Il mondo stava cambiando rapidamente e l’urbanizzazione richiedeva un modo di affrontare le distanze più spregiudicato e violento. La tecnica prevaleva sulla natura, la mobilità sulla sedentarietà. Nella velocità si conservava però un vocazione primitiva. In qualche misura nella visione futurista si riproponeva un modello nuovo di nomadismo, in cui non ci si spostava per necessità e conservazione della vita ma per scelta, per velleità anche cerebrale e utopistica, per affacciarsi al nuovo e  sperimentare nuovi percorsi artistici.
Oggi invece viviamo in una gabbia temporale che rischia di cronicizzarsi, in cui il presente pervade il quotidiano, senza attesa e senza una progettualità profonda, senza alcuna bellezza e arte. Si sta facendo corso un nuovo paradigma della comunicazione web, almeno questa sembra esserne l’evidenza sociale, nel modo di comunicare pubblicamente, sia nella rete delle relazioni interpersonali in cui virtuale e materiale interferiscono continuamente, sia nella relazione con le fonti che la maggior parte degli utenti non si preoccupano più di verificare, compresi molti professionisti dell’informazione. L’elemento che accomuna questa crisi della fiducia tra le parti che comunicano ha a che fare sempre con la variabile ‘tempo’.
 A monte, da lontano, come si evidenzia in molta letteratura psicoanalitica, succede che il tempo ingabbiato brucia i desideri, li consuma sul nascere e se le promesse non vengono mantenute rapidamente si convertono automaticamente in frustrazioni, in una minaccia corrente che nulla si può realizzare se non entriamo in forte competizione con gli altri.
Oggi assistiamo a rapidissimi processi di creazione di opinioni sui social, dinamiche di massa potenti, una proiezione costante di aggressività su capri espiatori che sembrano spontaneamente porsi a disposizione degli utenti come gli oggetti luccicanti di una vetrina: i privilegi del potere, la scuola, gli omosessuali, i disabili, le carni, le droghe, i vaccini e le politiche sanitarie, i partiti che governano, il movimento cinque stelle, i vegani, gli animalisti,  in generale la trasgressione. Si tratta di un lungo elenco di  tematiche, fluttuanti, che favoriscono la polarizzazione estrema delle opinioni impedendo la formazione di un pensiero ragionato, frutto della conoscenza e della riflessione.

Nel terzo mondo di cui parlava il filosofo della scienza Popper rientravano tutti i prodotti umani, le idee e i grattacieli, la tecnica e le credenze, le strade e la dialettica. Nel terzo mondo popperiano si stabilivano secondo processi di costruzione comunitaria le regole che consentivano di giudicare il grado di attendibilità delle cose dette. Per questa ragione i prodotti umani che si sottraevano alla falsificazione, cioè al tentativo di essere controllate, in modo da potere stabilire rispetto a quali condizioni erano ‘veri’, erano destinati nel tempo (in un tempo che poteva essere lungo), all’emarginazione, a dissolversi. Popper aveva sottovalutato la potenza creativa di molte idee della psicoanalisi e del marxismo che negli anni successivi alla sua morte dopo essere state falsificate con procedure popperiane, continuarono ad alimentare prospettive di ricerca con un soddisfacente grado di pensiero logico e scientifico. Popper con i suoi falsificatori potenziali può risultare superato ma il riferimento serve a prendere atto che avendo raggiunto una mole così grande di informazioni in tempi così rapidi, è diventato difficile operare controlli accurati sulle fonti contribuendo allo sviluppo di una dialettica buona, classica, nel senso pieno del termine.

Gli haters oggi sono più forti dei dialettici, il loro veleno si diffonde con una velocità che è intrinseca alla rete, perfettamente funzionale alla sua fisiologia logaritmica. Non importa se si tratta di vaccini, omosessuali, sostanze psicotrope, politici o insegnanti. L’hater fiuta il post e inquina la discussione richiamando all’ordine gli altri haters in una simbiosi di intenti che si poteva raggiungere solo nelle più grandi ideologie. Allora però l'affermazione di queste costruzioni concettuali ha richiesto un lungo tempo di militanza. L'hater avvelena la discussione, provoca, uccide la dialettica e fugge come un pirata della strada. Costituisce gruppi numerosi di formichine solidali che accorrono con lucida razionalità.  Non è un analfabeta funzionale, si serve semmai di questo esercito numeroso di utenti ignoranti, non abituati alla discussione e crea un modello di comportamento che funziona e gratifica. Questa massa di utenti è in crescita perchè utilizza il malessere sociale e estremizza i toni  il conflitto perchè viviamo una fase di povertà di risorse economiche e culturali.  


Vent’anni fa prima di insultare qualcuno doveva svolgersi un certo arco temporale. Non gli potevi dire ‘stronzo’, ’accoppiati con i cani‘, ‘impiccati’, ‘razzista’, ‘comunista’ o ‘spero che stuprino tua madre o tua sorella’ dopo tre battute. I social macinano le emozioni in un tempo troppo ridotto perché possano essere rielaborate nella relazione tra due parti che comunicano.  E’ un dato su cui la ricerca interdisciplinare delle neuroscienze si sta interrogando per spiegare dinamiche che appaiono nuove, non oggettivabili nei modelli di comunicazione tradizionali.  
Intanto che cosa possiamo fare per preservare la nostra comunictà razionale? Possiamo cominciare a sottrarci a queste discussioni fittizie, non alimentando articoli che nascono come pasti preconfezionati.