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Il silenzio è d'oro

Il silenzio è d'oro

La morte oggi si fa brutta -  per scimmiottare il titolo di un film di successo-, si incunea nella rimozione del dolore, l’abbiamo segregata e deportata in un limbo in cui le parole si sprecano e perdono il senso della realtà.

Le morti non sono tutte uguali. Si muore a causa delle malattie, di vecchiaia, per difendere un ideale, la patria, i diritti universali. Si muore per difendere la casa, la propria vita, i figli, i compagni di lotta. Si muore sul lavoro e si muore di fatica, si muore per strada a causa delle notti fredde, senza tetto e senza un letto caldo. Questo sentimento di precarietà collegato alla morte ci accompagna da sempre e siamo diventati bravi ad affrancarci dalla sua intimità, allontanandola e trasformandola in un accadimento esteriore e individuale. Negli ultimi anni stiamo anche abbandonato i riti che accompagnano la comunità nei momenti luttuosi. Se non si intrattiene una buona relazione con il defunto e i suoi parenti non si va nemmeno in chiesa o a visitare i parenti nelle salette delle camere mortuarie. E accade sempre più spesso di affidare la vecchia solennità dei telegrammi agli sms o alle condoglianze cumulative su facebook.

Nel nostro quotidiano ci siamo abituati alla morte, una forma di assuefazione rassegnata, un reticolo di deboli emozioni integrato ai rapporti interpersonali. Quando penso alla morte 2.0 mi viene in mente la borsa d’acqua calda che infiliamo sotto le coperte; immediatamente ci ristora poi pian piano si raffredda ma al momento te ne disinteressi, finché i tuoi piedi non hanno assorbito un grado di calore tale che la spingi via infastidito. Il senso della morte contemporanea è diventato come quella borsa, freddo e gommoso, un groviglio di sentimenti incomprensibili, un caos di voci che si amplificano reciprocamente, che dimenticano il silenzio antico, il conforto e le parole scarne che si recitavano tra compagni di vita e di esistenza che affrontavano quel momento difficile.

La morte oggi si fa brutta -  per scimmiottare il titolo di un film di successo-, si incunea nella rimozione del dolore, l’abbiamo segregata e deportata in un limbo in cui le parole si sprecano e perdono il senso della realtà. La morte 2.0 non è più l’alleata impalpabile del silenzio, rumoreggia e produce un vocio assordante, seduce i peggiori sentimenti, indossa tutte le maschere, quelle dei buoni e quelle dei cattivi.

Da tempo il mare mediterraneo è assimilato ad un grande cimitero senza nomi e senza riti, un sommerso di speranze che nella natura umana delle nazioni-prigioni non hanno trovato alcuna forma di accoglienza. Eppure i migranti, che siano economici o profughi, sono disposti a patire le sofferenze di un lungo viaggio per acciuffare la possibilità di vivere dignitosamente, come si conviene a tutti gli uomini, senza alcuna distinzione etnica o socio-economica.
Il mediterraneo è un mare che non ci appartiene più e che qualcuno ipocritamente chiama ancora mare nostrum. Ciò che accade oggi in mare scatena sui social la peggiore sofistica, senza sintassi umana, nell’impossibilità di guardarsi in faccia, un coacervo di opinioni e di atteggiamenti in cui le piccole e le grandi cattiverie si confondono con le intelligenze seriali, tutte uguali, anche quando a stretto contatto appaiono dicotomiche.
A ciascuno di noi appartengono opinioni, sentimenti, riflessioni di cui manifestiamo convinzione. Oggi sembra che non ci siano mezze misure, sono tutti incazzati e indignati, con il governo nuovo, con i vecchi, con la Chiesa, con Gino Strada, con la sinistra e con Berlusconi.
Salvini però è un furbastro: si pone su un piano differente, non politico, anche al di sopra della dialettica tanto cara a Berlusconi, amico-nemico. Non guarda più al dibattito politico con gli interlocutori, nemmeno si cura degli alleati. In questo momento esprime le pulsioni degli italiani senza alcuna mediazione e senso di responsabilità istituzionale. E' il ministro dell'Interno ma si comporta come un influencer che nella vita fa il garzone. Con i suoi proclami giornalieri assistiamo all’esondazione dei sentimenti negativi di gruppi sociali che diventano sempre più forti e seminano consenso. Il Salvini-Pensiero fa massa. Il premier e Luigi di Maio sono ridotti a figure marginali. Col suo esercito di esperti di media controlla una bella fetta di opinioni degli italiani. Non ci può essere una pluralità di interpretazioni e non serve l’aiuto dei sociologi. I suoi motti ‘prima gli italiani’ o ‘è finita la pacchia’ sono carichi del significato latente di un registro linguistico che il suo pubblico prevalentemente maschile, pieno di ormoni, omofobo e misogino, conosce bene. ‘Migranti fottetevi in mare’, questo è il motto dei Salviniani.  

Non sono bastate le centosettanta vittime in due giorni nel mese di Gennaio per assopire una dialettica diventata infame. Ci saranno altre morti perché l’inverno è ancora lungo e i flussi di migranti che provengono dalla Libia sono molto attivi a causa dell'instabilità politica e della corruzione che le mafie operano.

Non possiamo appellarci alla morte ed alla sua capacità di scatenare sentimenti di compassione. Sono più di trentamila le persone che sono annegate nel nostro mare in questi lunghi anni. Queste e le altre tragedie in mare però non saranno sufficienti perché ormai un paio di milioni di italiani infestano quotidianamente i social e si sentono legittimati a invadere ogni ragionamento, a ledere il pudore comune. Si sente ovunque il puzzo della loro disumanità e ora questo puzzo si legge anche nei commenti della classe media acculturata che si diletta ad assumere con una finta neutralità un'equa distanza da tutti, provando con superbia a ricostruire la genesi complicatissima dei flussi migratori. Questi milioni di italiani sono come i barbari che saccheggiavano i villaggi durante le ore in cui gli uomini erano assenti, violentavano le giovani donne, eliminavano i bambini e incendiavano i capanni. Sono un’orda di pulsioni che vuole vendicarsi contro un nemico di cui hanno bisogno e non hanno più la forza di rimanere in silenzio davanti alla morte.