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Il mio primo giorno di scuola

Il mio primo giorno di scuola

In tempo di Covid e di Dad ci appelliamo alla memoria emotiva per ricordare che c'era una volta la scuola

Ho conosciuto la scuola nel 1996. Avevo solo 29 anni e mancavo della più pallida idea di come affrontare il primo giorno da prof, dall’altro lato della cattedra. Facevo l’accompagnatore di anziani in una di quelle ditte che ti portano in giro con tariffe stracciate e poi cercano di venderti batterie da cucina, sistemi di riposo e coperte in lana merinos. Il lavoro mi piaceva perché le persone anziane sono come i bambini ed hanno bisogno di coccole e gratificazioni. Devi saperli ascoltare ed avere pazienza. Ti danno tanto anche se prendono tanto ed in questo senso assomigliano agli alunni in età adolescenziale, senza però il loro cinismo e senza sbalzi di umore. Quel lavoro mi piaceva ma a marzo avevo dovuto rifiutare un paio di convocazioni dopo che all’inizio di quell’anno scolastico ero stato trombato dai colleghi che, per anzianità, puntualmente mi precedevano in graduatoria. Avevo optato per le gite con pentolame ed ero tornato da un paio di giorni da San Giovanni Rotondo quando avevo ricevuto il telegramma di rito per presentami alle 8:00 all’Istituto Ferrara di Palermo.

Quella volta andò bene. La mia prima supplenza la realizzai così i primi di aprile, mi assegnarono una quarta ed una quinta per due settimane, di indirizzo tecnico commerciale, in pieno centro storico. Alle otto e dieci avevo preso la supplenza direttamente nella stanza della vicepreside anche se avevo sperato, senza capirne il perché e senza esito, che gli altri colleghi presenti mi precedessero nella graduatoria.

Era una giornata di scirocco ed ero arrivato con la mia moto, una Suzuki Big 750 enduro che difettava di freni e rombava come un trattore. Avevo parcheggiato la moto tra due bancarelle senza crederci. In fondo provavo ancora una volta a testare la fatalità e le combinazioni di graduatorie che mi apparivano ancora complicate.
Poco convinto avevo pensato di fare una passeggiata verso il centro, assistere all’ennesima sceneggiata in cui una collega ben vestita e puntuale come una sagrestana mi avrebbe privato del piacere di accettare per poi correre attraverso il litorale dell’Addaura a Mondello, da Scimone, famoso per le ciambelle più buone del mondo.

Andò male o bene, non saprei, sono passati 24 anni e non vivo professionalmente uno di quei momenti in cui puoi fare dei bilanci perché la scuola è cambiata tanto e con la pandemia si è in parte alienata. Dopo otto mesi di dad non ricordo più l’odore degli alunni e delle aule. La Dad, odiata, ideologizzata, preferita da alcuni al rischio del contagio, a qualsiasi prezzo, è la principale forma di comunicazione disfunzionale applicata alla didattica. Appellata dalla redazione dell'Espresso come Disagio a Distanza secondo me si nutre di sangue buono ma rimette in circolo solo elementi prevalentemente tossici. 

Alle otto e venti arrivai in classe, una quinta di ragazzoni e giovani donne che si era già organizzata per giocare a briscola nell’ora di italiano. Erano convinti cercassi qualcuno, che fossi un avventore o, a limite, un supplente genericamente in transito da quelle parti. La scuola era vecchissima, piena di anfratti, le pareti sporche, caotica, con un rumore assordante che proveniva da via Bandiera ed io disorientato, senza registro, senza libri, senza esperienza, con la moto posteggiata tra le vespe e gli scooter dei ragazzi.
Con loro andò bene e fu uno scambio di sorrisi, mi aiutarono a sentirmi a mio agio e mi fecero un sacco di domande, ridendo a crepapelle quando alla domanda sulle mie esperienze di prof risposi che a Marzo avevo venduto due sistemi di riposo volgarmente chiamati materassi e tre padelle giapponesi prodotte da una ditta tedesca.
Mi innamorai della scuola e dei ragazzi, per due settimane che diventarono tre e decisi che avrei fatto l’insegnante.

Stamattina prima di riprendere la scuola con due ore di lezione, dopo queste strane vacanze “fittizie” di questo tempo pandemico, pensavo a questa mia prima supplenza e riflettevo sugli odori e sullo spazio che caratterizza la scuola, fatto di testimonianza, un tipo di vitalità che non può fare a meno della presenza, degli odori e dei corpi. Questi ultimi nello spazio-aula si ricollocano costantemente, anche in violazione della disciplina, in modo da creare un sistema di relazioni parallelo e simultaneo a quello ufficiale; formale e informale diventano un mix esplosivo perché gli scambi e le azioni tra gli alunni afferiscono più che il gruppo classe il gruppo dei pari e tu ti trovi in mezzo, a negoziare con loro, borbottando che non ce la puoi fare.

Tra gli alunni i maschi si muovono in maniera diversa dalle femmine, sono energici e rozzi, tempeste ormonali rispetto alle compagne che sembrano più grandi ed addestrate a orientarsi in spazi più piccoli. I prof, per ragioni anagrafiche e intergenerazionali, sono molto più disciplinati e lenti (anche se alcune mie colleghe sessantenni sono delle schegge) e sono costantemente sotto i riflettori dello sguardo adolescenziale, severo e indagatore.

Ma in fondo la didattica in presenza al liceo perché funziona? Perché si agisce nella dialettica dei ruoli e delle generazioni in conflitto: da una parte ci sono gli adulti che svolgono compiti in cui tutto sommato credono, con legittime pretese educative, portatori sani di un vissuto che qualche volta danno per scontato mettendo alle corde la loro adolescenza; dall’altra parte le ragazze e i ragazzi che stanno costruendo con fatica il loro corpo, imparando a pensare e a fidarsi del mondo, in attesa che i loro sogni vengano riconosciuti in uno spazio più creativo, articolato e disinteressato della famiglia.

Penso all’impatto del mio primo giorno di scuola sulla mia memoria emotiva, coltivato a dovere, perché in qualche misura riuscisse nel tempo a significare la mia scelta, ad alimentare la motivazione a svolgere una professione che gradualmente ha finito col gratificarmi, soprattutto nei termini di una relazione possibile e costruttiva con gli alunni.
E penso ai colleghi giovani supplenti che hanno sperimentato nel 2020 (e sperimenteranno ancora in questo inizio d’anno) il loro primo giorno di scuola da remoto, davanti a un display, senza odori, senza complicità, senza uno sguardo d’insieme, gettati in uno spazio privato dei corpi e dello scambio, senza cicche sotto i banchi.