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Il Coronavirus e il narcisismo degli italiani

Il Coronavirus e il narcisismo degli italiani

Scriveva Gustav Jung che col terrore non si ottiene nulla da nessun animale, qualunque sia il suo grado. 

I giornalisti anglosassoni sanno bene che alcune notizie possono diventare più importanti di altre, che con caratteri peculiari smuovono tutte le pulsioni umane, gli istinti ma anche gli ideali più alti e possono, in alcuni casi, determinare una nuovo scenario per i media e per il pubblico, una nuova visione delle cose.
In linea di massima queste notizie corrispondono a quelli che si definiscono in ambito mediatico Big Event e tra gli esempi più noti troviamo l’11 Settembre, lo Tsunami del 2004, la pandemia suina del 2009. Un Big Event assomiglia ad un tornado, un grande twister della comunicazione di massa che spazza via le altre notizie e offusca l’attenzione dei cittadini verso le altre realtà e la dimensione locale, che poi è quella in cui viviamo ogni giorno e nella quale ci dobbiamo orientare.
Ma come accade che una notizia venga fiutata e si configuri istantaneamente come un Big event?
L’11 settembre non poteva essere la grande notizia corale che è stata senza le immagini di New York e delle torri gemelle squarciate, una ferita mortale alla città-simbolo che tutti abbiamo imparato a conoscere attraverso il cinema, un luogo che amiamo e consideriamo familiare.
Stessa cosa per lo Tsunami che nel nostro immaginario ha sconvolto destinazioni considerate esotiche e turistiche in un periodo dell’anno molto particolare e sentimentale, mentre eravamo impegnati a scartare i regali di natale. Questa notizia è stata anche l’occasione per l’affermazione del citizen journalism, con un gran numero di riprese amatoriali drammatiche e mozzafiato realizzate dai balconi degli hotel che hanno preso il posto dei servizi professionali occupando tutti i palinsesti dei tg nazionali.
Più vicina a noi è la minaccia della pandemia cosiddetta suina (A/H1N1v), fiutata nel 2009 dagli esperti di comunicazione come una notizia che avrebbe tenuto incollati alla televisione ed al web milioni di italiani. In quell’occasione la minaccia rappresentata da un virus nuovo è stata complicata dall’attuazione di un piano di comunicazione sanitaria per la campagna di vaccinazione tra i peggiori prodotti della storia istituzionale del nostro paese. La notizia della pandemia del 2009 si sgonfiò nell’arco di tre mesi, da gennaio a marzo 2009, quando con l’immissione del vaccino iniziò un braccio di ferro feroce tra l’opinione pubblica e il ministero. Sui media nell’arco della stessa giornata si alternavano ondate di rassicurazioni alla minaccia della fine imminente se non si inoculava il vaccino, l’invito delle istituzioni a fidarsi (come dimenticare la personificazione del ministero nel personaggio di Topo Gigio!) e l’amplificazione degli effetti collaterali del vaccino che secondo alcuni divulgatori avrebbero condotto alla morte sicura. Si determinò un sentimento collettivo di diffidenza piena, anche di alcuni medici che si lasciavano andare a dichiarazioni spontanee, verso la bontà del prodotto, preparato secondo alcune fonti in fretta e testato in modo insoddisfacente. Non entro nel merito della qualità di quel vaccino perchè non sono un esperto ma questa era la percezione pubblica nell'inverno del 2009, animata a colpi di fonti antagoniste, tra comunicazione sanitaria e controinformazione. Alla fine si è vaccinato solo il 15% del personale sanitario e gli stock sono tornati indietro per essere smaltiti, richiedendo ciò altri costi ed altre risorse.

Oggi a distanza di undici anni ci ritroviamo a fronteggiare un’altra minaccia pandemica che al momento pandemica non è, nel senso che si sta cercando di mettere in atto tutte le misure utili per contenere la diffusione del Coronavirus evitando l’epidemia.
A distanza di undici anni dalla suina non possiamo considerare però il rapporto tra opinione pubblica e istituzioni in buona salute. Le ragioni di questo incattivimento degli italiani verso le politiche sanitarie sono tante: l’instabilità, i tagli, la corruzione, gli sprechi e alcuni macroerrori commessi nel medio termine (primo tra tutti la mancata valorizzazione dei presidii territoriali, dei medici di famiglia e dei pediatri).
Agli italiani probabilmente non piace l’apparato sanitario pubblico perché prediligono ancora nostalgicamente (non dimenticando che il nostro paese è fondamentalmente cattolico) il rapporto personale con il medico di famiglia, una figura che incarna il ruolo patriarcale e i sentimenti paternalistici o maternalistici. Nei momenti di crisi della salute pubblica, quando è il sistema non è più personificato da medici la tendenza generale è quella di opporre resistenza a qualsiasi indicazione formale e ufficiale, scrollandosi ogni responsabilità personale e identificando la colpa nel ruolo dei decisori o di altre vittime del caso, si tratti di Conte o del primario di un reparto di infettivologia, di una turista bergamasca o di un uomo qualsiasi di origini cinesi.

Oggi in piena minaccia mediatica, con una rappresentazione pubblica dei rischi del Coronavirus fortemente amplificata,  la sensibilità sociale e gli sforzi delle istituzioni vengono traditi da traffico ininterrotto di contenuti caotici che circolano all’interno dei social. Che cosa è cambiato a livello mediatico rispetto al 2009?
Nella mole di informazioni che vengono veicolate attraverso la rete non si identifica più il confine tra informazione e controinformazione, complottismo e inchiesta tradizionale, blogger e giornalisti, editori e politici, informazione ufficiale ed espressione di opinioni personali. Siamo tutti (o quasi) un esercito di apprendisti portavoce, una maggioranza compulsiva impegnata a coltivare sentimenti rancorosi verso le fonti attendibili e scientifiche. Strumentalizziamo il diverso, le altre etnie e culture, il fenomeno complesso della migrazione, neghiamo la struttura globalizzata del mercato e del traffico di uomini e merci e dimentichiamo che nel mondo dell’informazione esistono accanto alle opinioni, nostro malgrado, i fatti, uniche e sole entità che accadono, oggettive, esterni alla nostra mente narcisistica.

Non va poi dimenticato che la cultura italiana rimane pesantemente antiscientifica e agli italiani piace pensare in maniera fatalistica, non riconoscendo alla ricerca medica un carattere predittivo.
In breve le sinapsi degli italiani a contatto con i rischi di una potenziale pandemia si comportano come gli errori irreversibili di autocad. Arriva una nuova influenza da un posto lontano, esotico, che sta mietendo qualche vittima, con dati statistici assimilabili a quelli dell’influenza stagionale e il tipo di italiano standard, senza possedere alcuna nozione di statistica, preferisce umanizzare il virus immaginando che la minaccia dovrebbe presentarsi alla porta di casa non imprevedibilmente ma con un preavviso “emotivo” come, ad esempio, una serenata napoletana, il ragazzo della pizza, la maestra che ti chiama a casa per consigliarti, il corriere che ti avvisa che sta arrivando un pacco. L’italiano standard pensa che i virus si comportino come gli esseri umani, pensa di poterli controllare a colpi di pacche sulle spalle e di relazioni e affabulazioni più o meno amichevoli e vantaggiose. E’ un bambino asmatico che cerca la mamma, un cittadino a metà che non è in grado di giudicare quanto accade intorno a lui. E' un seduttore che è destinato a fallire perchè la natura in genere vive indifferentemente ai desideri e ai capricci umani.

La pandemia del 2020, dell’anno bisestile (una cosa che molti ripetono come un mantra, come se il virus ne fosse consapevole!) è una bella manna del cielo per chi ama fare comunicazione sociale, occuparsi più o meno scientificamente dei processi di costruzione dell’opinione pubblica. Mentre uomini di scienza e di conoscenza sono impegnati nella ricerca di soluzioni capaci di dialogare con il sistema, con la sfera politica, qualcosa che sembra stia accadendo in modo tutto sommato ordinato e accettabile, tutti noi, in attesa di chiamare il 1500 per chiedere di tamponarci l’ugola ci divertiamo a elaborare congetture, immaginando scenari apocalittici, il fallimento definitivo e distopico della politica, l’estinzione anticipata della nostra specie. Siamo preoccupati e molti, probabilmente lo sono davvero ma ci divertiamo moltissimo ad esprimere il nostro punto di vista assertorio, un po’ come quando ai nostri fratellini dicevamo che nell’armadio della nostra stanza non poteva esserci un mostro, “non poteva proprio esserci” ma lo dicevamo dieci, venti, trenta volte, al punto che il nostro fratellino o sorellina si fiondavano nel lettone dei genitori correndo come dei forsennati.
Scriveva Gustav Jung che col terrore non si ottiene nulla da nessun animale, qualunque sia il suo grado.