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Ciao Stefano

Ciao Stefano

Sul caso Cucchi si sta consumando l'informazione e l'opinione pubblica italiana più tossica 

La vita di Stefano Cucchi non contava nulla perché era un tossico, uno dei tanti che popolano le città, uno dei tanti giovani che sono morti e dei tanti che per alçuni continueranno a crepare.
Io che sono nato nel ‘67, ricordo i morti per eroina degli anni ’80, fratelli più grandi di qualche amico, cugini, ragazzi sbandati che conoscevi per vicinato e poi ritrovavi sui giornali. In una stagione, credo nell'85 con una partita tagliata male e spacciata a Piazza Indipendenza, a Palermo, di ragazzi e ragazze ne morirono parecchi. In quei mesi aumentarono i controlli e si parlò di emergenza. Il mondo dell'eroina era fatto da chi spacciava e non consumava, chi spacciava ed era un modesto consumatore, tanti altri che invece si facevano soltanto e si rovinavano la vita con i debiti, i furti, le rapine e le botte ai genitori. La polizia li conosceva e talvolta li usava come informatori, come sentinelle un po’inaffidabili dei quartieri e di alcune piazze. Anche loro facevano ciò che potevano perchè la droga era entrata nell'economia di scala, troppe piazze e troppi giri.

Stefano era giovane, italiano tra le altre cose, lo scriviamo così, perché nessuno scherzando e facendo lo spocchioso possa giocarsi la carta che si trattava di uno spacciatore di origini nigeriane. Stefano era un tossico che meritava come tutti i tossici il migliore welfare e la migliore società che cerca di tirare fuori i giovani dai guai. Stefano meritava di essere aiutato e sottratto al suo destino. Ci hanno provato un sacco di volte, come hanno raccontato i genitori e la sorella che in questi anni, arrabbiati con lo Stato italiano legittimamente e comprensibilmente, hanno mostrato un amore immenso non solo per Stefano ma anche per la giustizia e per il bene comune.
Alla base dell’atteggiamento di Ilaria Cucchi vi è un’idea elementare che dovrebbe trovare il sostegno di tutti: se ti trovi nella condizione di cittadino inerme e fragile nessuno dei tuoi concittadini, a maggior ragione se sono rappresentanti delle forze dell’ordine, ti deve picchiare a sangue e ti deve far sbattere la testa sul pavimento. Se da buona sorella difendi il nome di Stefano e conduci una battaglia invocando giustizia non importa se hai simpatie per la sinistra o per i pentastellati, se sei candidata a Roma o sovraesposta perché i giornali amplificano le tue dichiarazioni polarizzando attenzione e conflitto. Se ti chiami Stefano o sei un qualunque altro ragazzo tossico non importa se da lì a poche ore sarai in overdose. Non importa! Puoi chiamarti come vuoi, puoi essere anche simpatizzante della destra ma questa idea è davvero elementare, liberale, storicamente superata in tutte le battaglie sui diritti, ordinaria determinazione del principio di mutuo soccorso che vale anche per spacciatori, assassini e mafiosi.

Spesso abbiamo letto nelle parole dei rappresentanti politici, in testa a tutti Salvini (ma anche Giovanardi si è dilettato a commentare con scarso senso delle cose!) che Stefano è morto a causa della vita dissoluta che conduceva. Questo modo aggressivo di discutere pur ricoprendo ruoli e personalità pubbliche brulica tra le opinioni di molti italiani che si considerano amici delle forze dell’ordine, ma non hanno la più pallida idea di che cosa rappresentino, sotto il profilo giuridico e normativo, carabinieri, finanzieri e poliziotti. Questo patologia di una certa opinione pubblica non sa che la divisa deve essere linda, più linda dei vestiti degli impiegati, dei commercianti e dei ferrovieri. Questa patologia fa male anche alle forze dell'ordine e se io fossi poliziotto o carabiniere eviterei confronti sui social, anzi nasconderei la mia appartenzenza, inviterei i miei colleghi a segnalare e far rimuovere le pagine degli amici delle forze dell'ordine. Questo è diventato un modo pervasivo di governare e sollecitare i social, molto in voga, che sicuramente diventerà oggetto di analisi sociologiche. Si spinge l'opinione pubblica a colpi di pancia in modo da giudicare una persona, come Stefano Cucchi, morta in una cornice che appare sin dall’inizio aperta a diverse letture e responsabilità dentro costellazioni ideologiche in cui o sei amico dei carabinieri o sei amico dei tossici.


La politica italiana che raramente sta dalla parte dei cittadini, se non nella retorica melodrammatica dei servizi televisivi a caldo, nel caso Cucchi soffre di mancanza di tipi differenti di intelligenza; nel caso specifico manca di un grado semplice di intelligenza emotiva e calpesta la dignità di tutti.
Di Stefano ce ne sono stati tanti, altri Stefano continueranno a nascere e ad esistere, dentro più o meno vite fragili o, come a qualcuno piace scrivere, vite dissennate. Non era un tossico ma un giovane incapace di difendersi, dalla sua dipendenza innanzitutto, da una società a cui i tossici sembrano non dare più fastidio purché non rompano i coglioni e muoiano nel loro dramma solitario, prova ne è la caduta ventennale di attenzione sul fenomeno, la mancanza ormai strutturale di politiche di prevenzione delle dipendenze. A nessuno sembra importare dei giovani in difficoltà con le droghe, l'alcool, il gioco d'azzardo. Stefano è stato ucciso dal potere prevaricante che il suo stato di salute suscitava sul suo corpo, un potere che avrebbe attratto prima o dopo - succede in tutte le società democratiche - una, due, tre mele marce operanti anche dentro le forze dell’ordine, rappresentanti dello Stato che dovrebbero impedirti di farti del male, aiutarti. Rappresentanti in divisa che dovrebbero tutelare l’incolumità di tutti a partire dalla tua, soprattutto se sei disarmato e se sei, come abbiamo letto in questi anni, un tossico.