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Week end in compagnia della fotografia partecipativa

Week end in compagnia della fotografia partecipativa

Le fotografie sono dei tasselli che compongono la nostra esperienza nel tempo di relazione con il mondo. Tocca a noi decifrarli

Ti chiama un amico che lavora nei servizi e ti fidi di lui ciecamente perché non l'ha detto a nessuno e sei depositario delle sue mansioni riservate. Per tutti, compreso la compagna, lavora come amministrativo in una azienda che progetta impianti termici. Ti aspetta sotto casa ed hai tre minuti di tempo per portare con te gli effetti personali perchè dovete recarvi in tutta fretta in un posto al sicuro da quella che si prospetta una bella tragedia collettiva e globale. Qualcosa ti accenna al telefono ma non riesci nemmeno ad immaginare, nonostante tu abbia visto i migliori film americani (compreso i B movie) su catastrofi e cataclismi. Sei lì e fai mente locale: portafogli, carte di credito, passaporto, le compresse per l’ipertensione, gli occhiali progressivi, la piccola agenda in carta di mais che hai comprato tre anni fa per scriverci le cose importanti e che hai usato solo per segnare la marca della pasta vitaminica della tua gatta. Pensi al trolley piccolo blu notte, di quelli che fanno tanto l’uomo cinquantenne un po’ disfatto, un tipo fascinoso che ha in mente un posto dove andare per realizzare un obiettivo misurabile. La misurabilità delle azioni, cose che oggi ti insegnano a fare sul lavoro, cose che globalizzano i tuoi sentimenti.
Marcello però ti ha detto che non puoi portare nulla, niente zaini, borselli, saccocce, niente con le batterie, nemmeno il telefono perché non potrai usarlo. 
“Porta con te solo quello che puoi mettere in un giubbotto leggero perché fa caldo” , ti ha detto con un tono sereno come se avesse prenotato una settimana a Cuba. Non ci capisci niente, rimane un minuto, hai preso tutto, sul telefono che non puoi portare però ci sono tutte le foto della tua vita. Ti abbassi, apri l’ultimo cassetto della scrivania e prendi le foto che avevi sistemato in un piccolo album con la copertina jeansata. Sono una trentina di foto e le consideri importanti, lo conservi dentro la tasca interna del giubbotto, apri la porta e scendi di corsa senza aria e con il diaframma chiuso. Ti senti come la conserve di pelato che faceva tua nonna.
IMMAGINEFoto di Giusy Tarantino

Immaginate che questo potrebbe accadere davvero. Pur non avendo un amico che vi allarma e vi sconvolge in pochi minuti, il tema di dovere portare con sé oggetti importanti, di decidere cosa val la pena conservare e cosa va lasciato potrebbe materialmente riguardarci da vicino, rappresentarsi in un tempo nemmeno così lontano. Nei consessi mondiali ricercatori di diverse discipline si incontrano sull’antropocene, l’estinzione prossima della razza umana, una massa cieca e irrazionale che continua a produrre ma non tutela l’ambiente, né fa memoria di comunità. L’antropocene è un affare però che in questo momento, alla maggior parte delle persone, appare più vicino alle trame dei film a cui si accennava prima, un tema da specialisti, ritenuto interessante per l’etica della scienza che rimane poco correlato alla memoria emotiva che suscitano le foto personali e di famiglia. 

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(Foto di Carlo Baiamonte)

Le fotografie sono dei tasselli che compongono la nostra esperienza nel tempo di relazione con il mondo. Il nostro cervello, che è efficiente e le ha generate (commissionate o scattate), le sistema in cassetti più o meno accessibili, un’operazione simile a quella che facciamo sul desktop del pc, del tablet o dello smartphone. Ci sono aspetti nel funzionamento della memoria che le neuroscienze riescono a spiegare: essendo il nostro supporto caratterizzato da una limitata capienza, man mano che facciamo esperienze nuove, il cervello fa spazio, archivia, allega, ordina, zippa, nasconde. Se alcune immagini sono forti perché sembriamo, ad esempio, fin troppo felici, troppo tesi, sognanti o sognati, ingenui, vulnerabili o banali a noi stessi, il cervello le archivia e le nasconde polarizzandole agli estremi di una forbice affilatissima. L’attrezzo nel bene e nel male lo conosciamo e l’abbiamo maneggiato spesso. La mente metabolizza sistemi ben congegnati di difesa e sappiamo come accostarci al metallo senza rischiare tagliuzzamenti, evitando contatti inaspettati con una parte dei nostri ricordi che ci turba o ci crea disagio.

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(Foto di Carlo Baiamonte)

Ma che cosa sono davvero le foto di famiglia, questi repertori emotivi che ci ricordano quanto eravamo piccoli e indifesi, pieni di aspettative, illusi, carichi di gioia, adolescenti impacciati, corpi inesplorati, figli, neogenitori e tanto, davvero tanto (troppo in alcuni casi) altro?
Personalmente non mi sono fatto ancora un’idea precisa della relazione che si può intrattenere con questi archivi ma una riflessione mi invita a riconoscere almeno tre assunti:
1) le foto di famiglia, le trenta che porterei con me, se Marcello con la sua telefonata sconvolgesse i miei piani di ordinaria esistenza, sono mie, sono l’archivio Carlo, mi appartengono, anzi io appartengo a loro. Questa appartenenza però ha una peculiarità che devi imparare a trattare; non si tratta della relazione che un sofficino con mozzarella e pomodoro intrattiene con la sua immagine di packaging ben studiata;
2) le foto, il tuo archivio, non ti puoi limitare a scorrerlo in un setting solitario. Oddio, puoi farlo tutte le volte che vuoi ma, ad un certo punto, se vuoi entrare a contatto con le parti più remote, con le tue cartelle nascoste, svuotare il cestino e osservare cosa c’è dentro e ti può servire, hai bisogno di una mano, di una conduzione competente e di un gruppo di compagni che come te sono impegnati in questa operazione molto intima e personale. 3) le foto, nella relazione con il nostro Io, richiamano una circolarità che si costruisce insieme agli altri. Senza l’altro, senza una relazione, può accadere che ti allontani sempre di più dal metallo affilato delle forbici e ti ricavi invece un cantuccio, un angolo comodo in cui puoi decidere quasi tutto.

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(Foto di Patrizia Bognanni)

Il contatto con i nostri repertori emotivi può diversificarsi nei gradi e nei modi perché la vita, fortunatamente per noi, è piena di occasioni in cui riguardiamo con interesse divertito o commosso le foto di famiglia. Possiamo fare esperienze nuove per recuperare una parte ‘difficile’ da leggere, se siamo aiutati da uno stimolo esterno ed una conduzione interessata, pensata e sensibile al nostro mondo interiore.

Ho appena partecipato al workshop “Il mio sguardo@fuoco”, un laboratorio intensivo di fotografia partecipativa condotto dalla brava Nuccia Cammara e promosso dalla sezione di Palermo dell’Associazione AFA (Associazione Fotografica Alesina).  Nuccia ha saputo orientarci in un percorso di autoconsapevolezza emozionale, proprio a partire da quelle immagini che ci riguardavano da vicino. E’ accaduto che i nostri repertori familiari e personali si sono popolati come gli orizzonti del mare: barchette più o meno colorate ma anche traghetti e navi da carico che avrebbero potuto preoccuparci, faraglioni e scogli, luccichii dell’acqua increspata, un movimento simile alle scaglie di mare che ci ha raccontato Montale. La catastrofe imminente che ti costringe a portare con te solo un pezzettino del tuo repertorio personale è uno degli esercizi utili che abbiamo realizzato durante il workshop.

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Foto di Giusy Tarantino

L’emozione e l’effetto più importante del mio particolare fine settimana però l’ho vissuto in questo Lunedì che sembrava appiccicoso di impegni scolastici e poi mi è invece apparso gradevolissimo. Un tempo per me e per gli altri più ‘intenso’, accompagnato da quel senso di libertà e di autonomia che si stenta a volte a riconoscere nelle giornate lavorative.

Carlo Baiamonte, Lorabuca. *Tutti i diritti riservati